Interviste

31.08.2023

Tra classica e jazz, per un impasto di suoni unico

Intervista a Marco Santilli

di Alessandra Aitini

La 47ª stagione concertistica Ceresio Estate si chiude in bellezza - domenica 3 settembre alle ore 17.00 presso la Sala dell’ex Municipio di Castagnola - con la presentazione al pubblico ticinese dell’ultimo lavoro del versatile clarinettista e compositore di Giornico Marco Santilli, intitolato “Sujazzstiva”. Santilli – già apprezzato ospite di Ceresio Estate nelle stagioni passate - torna ad ispirarsi a fiabe e leggende ticinesi per comporre – nel suo stile in equilibrio tra jazz e tradizione classica, tra scrittura e improvvisazione, una serie di brani di grande potere evocativo. L’organico coinvolto comprende, oltre a Santilli ai clarinetti, Isabell Weymann (flauti), Davide Jäger (corno inglese e oboe), Antonio Lagares (corno), Alessandro Damele (fagotto), Azra Ramić (clarinetto contrabbasso), Julio Azcano (chitarra), Marina Vasilyeva (pianoforte) e Fulvio Maras (percussioni). Marco Santilli ci ha concesso una bella ed illuminante chiacchierata.
Come nasce il progetto che unisce “CheRoba” a “Il fiato delle Alpi”?
Questa formazione di 9 musicisti di 7 differenti nazionalità è sorta nel 2015 grazie alle composizioni commissionatemi dall’Internationales Musikfestival Alpentöne, confluite nell’album “La Stüa” (soggiorno, nel dialetto leventinese). Mi venne chiesto di comporre un’ora di musica che avesse in qualche modo un legame con l’arco alpino e il Ticino. Colsi quindi l’occasione per scrivere per una formazione allargata: avendo da poco formato il gruppo jazz “CheRoba” (clarinetto/clarinetto basso, chitarra, pianoforte e percussioni) in vista delle registrazioni del CD “L’occhio della betulla” presso Rete Due, pensai di ampliare il quartetto con un quintetto di fiati classico (flauto, oboe, clarinetto, corno, fagotto), piegandolo però al mio gusto, che predilige tinte più scure e rotonde, per raggiungere un mio immaginario di sonorità “alpine” grazie a strumenti dal registro più grave: flauto contralto, corno inglese e clarinetto contrabbasso, che insieme a corno e fagotto contribuiscono a rendere i suoni più caldi, intensi e ricchi di armonici. Entrambe le formazioni portano con sé un bagaglio sonoro distintivo, e l'obiettivo era di fondere queste influenze in modo sinergico e innovativo. Probabilmente per la prima volta un quartetto jazz incontra il classico quintetto di fiati in un contesto musicale “contaminato”, dove l’improvvisazione convive con la nota scritta.
E cosa si cela dietro la genesi dell’album “Sujazzstiva”?
Il nome “Sujazzstiva” si rifà a “suggestiva”, comprendendo “jazz” e “stiva”, variante grigionese di “stüa”, per continuare il discorso intrapreso nel nostro primo lavoro e avendo stavolta pure musicato una fiaba dei Grigioni italiani. Le 10 composizioni si ispirano infatti a storie della Svizzera italiana, la maggior parte contenute nei quattro volumi “Il meraviglioso. Leggende, fiabe e favole ticinesi” editi da Armando Dadò (1990). “Antiche fiabe e leggende delle nostre origini” o “patrimonio folclorico tramandato fino ai giorni nostri”: uguale come le si definiscano, mi piaceva l’idea di immortalare finalmente in musica le storie nate da un “inconscio collettivo” (C. G. Jung), così sorprendenti da non avere nulla da invidiare ad alcuni racconti di un ben più moderno genere “Fantasy”. Il senso meraviglioso del sovrannaturale mi ha stimolato a ricercare impasti sonori inauditi attraverso strumenti musicali acustici “terreni”, come a volere simboleggiare quei protagonisti di una realtà contadina che si intrattenevano con i racconti leggendari nella “stüa” della loro vallerana dimora. Sono convinto che, con una storia dietro, anche le composizioni strumentali assumano più forza.
Qual è secondo lei ad oggi, nel panorama musicale internazionale, lo stato di salute del rapporto tra la musica classica e il jazz?
Nel panorama musicale internazionale attuale, il rapporto tra la musica classica e il jazz è un terreno fertile per l'innovazione e la collaborazione. Si osserva una tendenza sempre più forte a superare i confini tradizionali dei generi, consentendo ai musicisti di esplorare nuove forme di espressione attraverso la fusione di elementi classici e jazz. Tuttavia non credo di essere la persona più adatta per rispondere con precisione, siccome mi interessano forme “ibride” ancor più complesse, con influenze pure dalla World Music al Progressive Rock, dal Folk alla Minimal Music... Per me è importante che gli ingredienti vengano miscelati in modo da non lasciarli poi trapelare facilmente: solo così si ottiene un “impasto” unico. Non sarà un caso che nelle varie recensioni il nostro genere è stato definito “non classificabile”. Dovendo comunque classificare „Sujazzstiva”, la troveremmo sotto la voce „Jazz“, più precisamente “European Contemporary Jazz”, come suggerito da iTunes nell’ambito della Top Ten degli album Jazz. Un Jazz in ogni caso aperto ad accogliere pure strumenti classici, nonché talvolta alcune forme della stessa musica classica. Da notare vi è infine che tutti i musicisti del mio nonetto sono di formazione accademica.
Ci sono altri progetti in vista per l’ensemble costituito da “CheRoba” e “Il fiato delle Alpi”? Oppure ha forse progetti di altri ensemble “inediti”?
Con un album fresco di stampa è prematuro pensare ad altri progetti per questa formazione. L’obiettivo è presentare dal vivo le nuove composizioni, trovando organizzatori curiosi, dalle orecchie ben aperte. Sarebbe un peccato “bruciare” questo programma, anche solo per l’enorme lavoro di scrittura che richiede una piccola orchestra. Tanto è vero che, pur essendo un compositore istintivo, ciò mi ha fatto finalmente comprendere quei compositori che hanno smesso di esibirsi per concentrarsi sulla scrittura. Sono comunque aperto a nuove collaborazioni, tipo collaborare orchestre sinfoniche e big band, per trovare pure lì degli impasti sonori inediti. Parallelamente, sto invece portando avanti le seguenti formazioni: “Stralüsh”: con Simone Menozzi (pianoforte, elettronica), con cui pubblicheremo a breve il secondo album; “Orgelwind”, con Ivan Tibolla all’organo a canne; “Clarinetto d’improvviso”, mio progetto in solo per il quale sto aggiornando il repertorio. Inoltre ho da poco composto un repertorio per un nuovo quartetto Jazz. Ma innanzitutto non vedo l’ora di esibirmi a Ceresio Estate!

27.08.2023

I colori della nostra musica richiamano il Caravaggio

Intervista a Teodoro Baù

di Alessandra Aitini

Domenica 27 agosto alle ore 19.00 Ceresio Estate torna nella Chiesa di Santa Maria Assunta a Sorengo con il concerto del quartetto di viole da gamba “La Consorteria delle tenebre”, composto da Teodoro Baù (viola da gamba soprano, già ospite di Ceresio Estate), Rosita Ippolito (viola da gamba tenore), Marco Casonato (viola da gamba basso) e Noelia Reverte Reche (viola da gamba basso). I quattro musicisti proporranno un suggestivo programma dal titolo “Sotto il silentio della notte oscura”, cui risponde anche il loro primo CD. È Teodoro Baù ad introdurci al concerto ed a questa particolare formazione.
Torni a Ceresio Estate 6 anni dopo il tuo bel concerto sul Monte Tamaro: come si è evoluta la tua carriera in questo lasso di tempo?
Molte cose sono cambiate! Nel 2017 avevo appena finito gli studi, era il tipico periodo di transizione fra la fine della carriera accademica e l'inizio molto lento del lavoro. Negli ultimi 6 anni la mia attività professionale si è intensificata (nonostante un periodo di pausa forzata dovuto al covid), e ho potuto sempre più occuparmi dei progetti che più mi stanno a cuore.
Per la vostra tipologia di ensemble si parla di “consort”: che specificità implica questa denominazione?
Quando si parla di consort si va molto indietro nel tempo: intorno al XV e XVI secolo era normale che per ogni strumento esistessero taglie differenti, relazionate fra loro come i 4 registri canonici della voce umana - soprano, alto, tenore, basso. Questo si applica alle viole da gamba, ai liuti, ai flauti dolci e anche alle "viole da brazzo" – ove si può rintracciare la nascita del violino e del violoncello. Nelle fonti d'epoca sono continui i riferimenti in cui viene indicato come obiettivo principale dello strumentista quello dell'imitazione della voce umana, quindi il consort (o “concerto di strumenti”) ha come obiettivo quello di imitare un ensemble di voci: alcuni dei pezzi che proporremo in questo concerto sono infatti brani di musica vocale.
“Sotto il silenzio della notte oscura”: qual è il ruolo dell’ombra e del buio nel repertorio che affrontate?
"Sotto il silenzio della notte oscura" è un endecasillabo tratto da una poesia annotata all'inizio di un manoscritto dal quale provengono molti dei pezzi inclusi in questo programma, incentrato sulla musica napoletana a cavallo fra ‘500 e ‘600. Abbiamo pensato che questo verso fosse particolarmente efficace per presentare un repertorio che si rispecchia totalmente nello stile pittorico coevo: nessun programma è più caravaggesco di quello che presenteremo a Ceresio Estate! Il consort di viole delinea in modo particolarmente efficace le tinte scure, squarciate talvolta da raggi luminosi che appaiono molto più forti quando si è abituati all'oscurità. Siamo distanti dai grandi fasti del barocco napoletano del secolo successivo, qui la musica è molto più segreta, ermetica, e per alcuni aspetti affascinante.
Come vive l’epoca attuale uno strumento antico come la viola da gamba?
Benissimo! Probabilmente la vera avanguardia degli ultimi 40 anni è stata quella dell'esecuzione storicamente informata, e chi si occupa di strumenti "moderni" non è rimasto indifferente a questo fenomeno. Moltissimi virtuosi contemporanei propongono letture di pezzi di musica barocca e classica consci di tutto ciò che riguarda la prassi storica - un certo tipo di cura nell'articolazione, nell'uso del vibrato come un ornamento e nell'uso, talvolta, di archi o corde di modello coerente con l'epoca in cui è stato scritto un determinato pezzo. Trovo questo un atteggiamento lodevole. La viola da gamba vive un momento ottimo: da ormai più di 50 anni si è tornati a studiare lo strumento e di generazione in generazione la consapevolezza su di esso va sempre più aumentando. Noto inoltre che la viola da gamba si sta ritagliando uno spazio all'interno della composizione di musica nuova e personalmente sono sempre felice di suonare nuovi pezzi scritti per il mio strumento o per il mio ensemble.

17.08.2023

 

La profondità del violoncello solo

Intervista a Francesco Stefanelli

di Alessandra Aitini

Sabato 19 agosto, alle ore 20.30, la Chiesa di Santa Maria Assunta di Sorengo ospiterà il recital del talentuoso violoncellista Francesco Stefanelli. Originario di San Marino, è stato ammesso giovanissimo nella classe di Enrico Dindo al Conservatorio della Svizzera italiana, che ha frequentato per tre anni, mentre attualmente studia presso la Escuela Superior de Musica Reina Sofia di Madrid con Jens Peter Maintz. Nonostante la giovane età possiede già una nutrita esperienza a livello internazionale come solista, camerista e orchestrale. Lo conosciamo un po' più da vicino
Bach, Crumb, Berio, Britten: esiste una parentela tra le opere in programma?
Sebbene queste opere possano sembrare distanti nel loro stile e contesto storico è possibile trovare le connessioni attraverso l’attenzione dedicata al violoncello, all’innovazione compositiva e all’esplorazione timbrica. Bach e Britten hanno scritto suite per violoncello solo, ognuna composta da una serie di movimenti con differenti stili, ma anche se sono distanti alcuni secoli presentano una struttura simile. Crumb, Berio e Britten erano noti per le loro tendenze innovative e sperimentali nella composizione. Bach scriveva in forme più tradizionali, Berio si ricorda per le sue  sorprendenti Sequenze per strumento solo, l'opera di Crumb è connotata dall’uso creativo delle sonorità e quella di Britten dal suo essere eclettico. Tutti e quattro hanno comunque esplorato il potenziale timbrico del violoncello, lasciando la possibilità di creare connessioni soggettive in base all'interpretazione.
Sei stato premiato in numerosi importanti concorsi: come ha inciso questo nel tuo percorso?
Sicuramente i premi sono indispensabili per avere un buon curriculum e per presentarsi ad associazioni musicali ed enti concertistici, ma è soprattutto l’esperienza di ogni competizione che -vivendola con gioia o delusione - fa maturare e crescere.
Il violoncello è uno strumento molto versatile: può essere solista, strumento d’orchestra o partner cameristico. Come vivi la dimensione del recital per violoncello solo?
È un esperienza più intima con il proprio strumento, ma più diretta con il pubblico rispetto alla formazione cameristica o solistica con orchestra. Senza dubbio è il suono del violoncello il protagonista indiscusso - con il recital per violoncello solo ho più possibilità di creare varietà di suoni, colori, di evidenziare alcune tecniche particolari e le capacità espressive dello strumento. È però il rapporto sia instaura con le persone in sala che appaga di più: il legame che si stabilisce è più profondo, il pubblico è più attento alle sfumature e spesso si il recital si traduce in una ricca esperienza emotiva.
Quali sono i tuoi progetti musicali per l’immediato futuro e per un futuro a lungo termine?
Dopo questo concerto in Svizzera andrò in vacanza per qualche giorno, poi in settembre avrò un altro recital per violoncello solo a Torino e alcuni concerti in duo con pianoforte. Ad Ottobre sarò invece nuovamente alla Escuela Superior de Música Reina Sofia a Madrid e continuerò a prepararmi per alcuni concorsi e concerti.

14.08.2023

 

Amiamo ricercare autori geniali ma poco eseguiti

Intervista a Daniel Lienhard

di Alessandra Aitini

Martedì 15 agosto alle ore 19.00 nella Chiesa parrocchiale di Caslano Ceresio Estate ospita un concerto dell’ensemble Buschkollegium Karlsruhe, che per l’occasione si presenta con un organico piuttosto inusuale: Eleonora Vacchi, mezzosoprano; Elya Levin, flauto, Bettina Beigelbeck, clarinetto; Peter Bromig e Daniel Lienhard, corni e Marie Colombat, violoncello. Questa particolare combinazione di voce e strumenti non è casuale, bensì indicata nella partitura inedita del brano “Frühlingslied in schwäbischer Mundart” di Felix Mendelssohn Bartholdy nel 1824. Il resto del programma fa buon uso della varietà di colori strumentali a disposizione con una altrettanto variegata selezione di opere di altri autori più o meno noti. Ci introduce a questo concerto il cornista Daniel Lienhard.
Com’è nato il vostro ensemble?
Il BuschKollegium Karlsruhe è nato poco più di 10 anni fa da un desiderio: alcuni entusiasti cameristi volevano eseguire opere del famoso violinista e compositore Adolf Busch (1891-1952), che aveva lavorato anche in Svizzera ed era emigrato negli Stati Uniti a causa del nazionalsocialismo. Questo progetto si è poi sviluppato in un'intera serie di concerti e registrazioni di CD. Altri progetti dell'ensemble hanno avuto come focus il compositore di Karlsruhe Josef Schelb (1884-1977) e l'americano Frank Zappa. Ogni programma è stato sviluppato con strumentazioni diverse, ma fin dall'inizio la clarinettista Bettina Beigelbeck è stata la forza trainante dell'ensemble.
Come lavorate, a livello di costruzione di un “vostro” suono di insieme, nell’interscambio tra voce e “voci” delle diverse famiglie di strumenti (legni, ottoni, archi)?
Nel programma che portiamo a Ceresio Estate ogni opera ha una strumentazione diversa - a volte molto particolare – dunque non può emergere un suono d'insieme specifico. Il fatto è che tutti i brani sono così ben composti che non solo tutti gli strumenti si distinguono, ma anche la parte vocale può fondersi senza problemi con il suono strumentale. Un’accortezza è fondamentale: affinché in ogni brano ci sia una trasparenza cameristica ottimale, le dinamiche indicate dai compositori devono ovviamente essere implementate in modo intelligente.
Il programma del vostro concerto a Ceresio Estate è molto particolare: ci può svelare le trame e i fili rossi che esistono tra un pezzo e l’altro?
È vero, questo programma è speciale. Si basa sull'idea di inserire “Frühlingslied in schwäbischer Mundart», opera completamente sconosciuta di Mendelssohn, con la sua strumentazione, unica nell'intera letteratura musicale, in un contesto di brani che mostrino gli strumenti utilizzati in combinazioni completamente diverse. Tra l'altro, si dice che Mendelssohn abbia ricevuto l'idea della sua partitura strumentale dal librettista, che voleva mettere alla prova le capacità del giovane e geniale compositore. Per noi era importante offrire un programma molto vario, che non annoiasse nemmeno un minuto, dalla musica classica viennese alle opere di Seiber e Weir, di influenza dadaista, ma molto divertenti.
Nel vostro repertorio ci sono autori celebri, ma anche compositori/compositrici molto meno noti: cosa vi lega a queste figure?
Sono sempre stato alla ricerca di pezzi che nessuno aveva ancora suonato. Così ho ottenuto da una collezione privata inglese una copia del manoscritto non ancora eseguito di Berlioz, e da Berlino e Oxford il materiale per il Frühlingslied di Mendelssohn, che manca ancora nell'edizione completa. Oltre a queste celebrità, tuttavia, sono anche i compositori che non vengono quasi mai eseguiti a ispirarmi. Le loro biografie sono spesso molto particolari: Thurner - il cui quartetto per oboe Heinz Holliger mette sullo stesso piano di Mozart - morì malato di mente ad Amsterdam. Theuss partecipò alla campagna di Russia di Napoleone e ne scrisse anche un libro. A causa delle dita precedentemente congelate, divenne un virtuoso del pianoforte Aeols, uno strumento appena scoperto che non richiedeva particolare destrezza.

08.08.2023

 

I nostri strumenti sono un antidoto ad ogni barriera in campo musicale

Intervista a Giovanni Contri 

di Alessandra Aitini

Martedì 8 agosto alle 20.30 Ceresio Estate presenta, presso lo Spazio Garavello 7 di Morcote, il Quartetto Saxofollia, composto da Fabrizio Benevelli (sax soprano), Lorenzo Simoni (sax contralto), Marco Ferri (sax tenore) e Giovanni Contri (sax baritono). I quattro sassofonisti, forti di una formazione classica, spaziano con disinvoltura tra la musica colta, il jazz e il linguaggio dell’improvvisazione. A Morcote presentano il loro recente album “Portraits”. Ci avviciniamo al concerto attraverso una chiacchierata con Giovanni Contri
Come si riflette il vostro nome – Saxofollia – sul vostro approccio alla pratica musicale?
Per noi follia è innanzitutto un divieto alla preclusione. Spesso il sassofono viene visto come uno strumento inadatto a suonare un certo tipo di musica. In realtà questo gruppo in tutta la sua lunga storia – perché Saxofollia esiste dal 1993 – non si è mai precluso alcuna strada: per noi Saxofollia è stato ad esempio suonare il Quartetto K 581 di Mozart, insieme al clarinetto, sostituendoci agli archi. Follia vuol dire approcciarsi anche al repertorio operistico, e non parlo soltanto di ouverture, ma anche di arie e recitativi. Inoltre non ci siamo mai posti il divieto, pur essendo strumentisti di estrazione classica, di studiare, chi più chi meno, il jazz, e di praticarlo in varie accezioni: jazz significa improvvisazione e nel nostro gruppo abbiamo Marco Ferri e Lorenzo Simoni, entrambi vincitori del più importante premio jazzistico italiano. Essere improvvisatori implica un percorso di studio molto lungo e valido tanto quanti altri percorsi di studi accademici o classici. Noi altri esecutori del quartetto abbiamo invece una longeva storia come membri di big band, mentre io ho studiato anni come poter rendere, con il sassofono baritono, il walking bass dei contrabbassisti jazz. La nostra “Saxo-follia” è questo, un continuo travestimento, un continuo mutare: affrontare sia repertori originali che, grazie al nostro quinto elemento, il nostro arrangiatore di fiducia Roberto Sansuini, cercare di suonare qualunque brano ci passi per la testa.
“Portraits”: 4 omaggi a 4 grandi figure del jazz. Ci può svelare qualche “chicca” di questo progetto?
Si parte da Charlie Mingus, di cui abbiamo ripreso “Goodbye Pork Pie Hat” – brano dedicato a Lester Young, a sua volta uno dei più grandi sassofonisti jazz della storia. Questo brano è stato affidato a Roberto Sansuini, che lo ha trattato come fosse un tema classico e ne ha scritte 6 variazioni dai sapori diversi: una funky, una in stile bachiano, una che omaggia la musica minimal, una vicina all’estetica di Morricone. Il secondo ritratto è un omaggio a Bill Evans, tra i fondatori del genere Cool. Il ritratto a lui dedicato è un’alternanza di suoi brani in cui primo e terzo movimento sono arrangiati nella maniera classica (si ascolterà quindi il suono del sax classico di scuola francese), mentre gli altri due movimenti sono stati arrangiati in maniera più swing e vengono suonati con il suono soffiato tipico del jazz, all’americana. Il programma si chiude con un brano originale di Gordon Goodwin, che ha personalmente “benedetto” la nostra incisione del suo lavoro, “Diffusion”, che nei suoi 4 movimenti ripercorre la vita del sassofono nella storia della musica, dal’900 francese all’hip-hop.
Nella vostra “saxo-follia”, quali sono gli ambiti di interpretazione che sentite più vicini alla vostra sensibilità?
Ci piace molto spaziare tra la musica classica e il jazz. In particolare amiamo – e in questo siamo un po’ unici – suonare brani scritti come fossero brani di musica classica con i suoni tipici dei sassofoni che si sentono nei jazz club o nelle big band. Il sassofono è un po’ l’icona del jazz, ma ha anche un’importante carriera nella musica classica, quindi il fatto di mischiare questi due generi anche nello stesso brano, è un po’ la nostra specialità.
E cosa amate in particolare del sassofono?
L’ampiezza e la varietà dinamica e timbrica del nostro strumento, che ci permettono all’occorrenza di poterci sostituire ad un quartetto d’archi, riuscendo ad avere sia dinamica che l’espressività di questa formazione, e nel giro di pochissimi secondo riuscire a trovare invece l’impatto sonoro, la forza ed anche la componente ritmica di una big band o di un’orchestra jazz.

02.08.2023

Siamo un trio che bilancia diverse idee musicali

Intervista a Sara Capone 

di Alessandra Aitini

Mercoledì 2 agosto alle ore 19.00 nella Sala Boccadoro di Montagnola si esibirà per Ceresio Estate un giovane e promettente trio composto dalla violinista Pamela Tempestini, dal clarinettista Fernando Luis Fernandez Frutos e dalla pianista Sara Capone. I tre musicisti, formatosi nell’ambito del Conservatorio della Svizzera italiana, presentano un programma con musiche di Stravinsky, Bartók, Milhaud e Amargós. Ci introduce al concerto, raccontandoci qualcosa di sé, la pianista Sara Capone.

Com’è nato il trio con la violinista Pamela Tempestini ed il clarinettista Fernando Luis Fernandez Frutos?

Ci siamo conosciuti al Conservatorio della Svizzera Italiana, dove studio da ormai 5 anni. L’idea di formare un trio è nata in seguito alla prima volta in cui, quasi per caso, abbiamo suonato insieme e ci siamo resi conto di avere una buona intesa musicale. A quel punto abbiamo deciso di diventare un gruppo stabile: siamo il Trio Métron. Questo nome ha preso spunto dalla ricerca della giusta misura secondo il concetto greco di katà métron, e cioè del bilanciamento fra le nostre diverse personalità e idee musicali.
Ci puoi raccontare sulla base di quali criteri avete elaborato il programma per il concerto a Ceresio Estate?
La nostra formazione prevede principalmente brani composti nel XX secolo. Ci incuriosisce osservare come in un arco di tempo così ristretto si sviluppino tendenze stilistiche sempre diverse e interessanti: al violino, al clarinetto e al pianoforte sono spesso affidate melodie derivate dalla musica popolare e dalla danza. Questo è il criterio comune che caratterizza i brani in programma, sebbene composti in luoghi e contesti storici molto diversi fra loro: Stravinsky, dopo il distacco dalla Russia, contrappone la severità dello stile marziale alla leggerezza di Tango, Valzer e Ragtime, arricchiti da un’ inconfondibile esuberanza ritmica; Bartók propone un excursus fra varie danze della tradizione ungherese e rumena, partendo da quella militare con "Verbunkos" per arrivare alla frenetica danza veloce "Sebes"; Milhaud, in Francia, riadatta la musica di “Le Voyageur sans bagage” di Jean Anouilh alternando elementi jazzistici e folk a momenti più drammatici; lo spagnolo Amargos unisce la tradizione del flamenco alla cantabilità dello smooth jazz creando melodie fresche e innovative.
Nel 2022 hai completato il Master in Solismo. Che posto occupa la musica da camera nei tuoi progetti e nelle tue ambizioni per il futuro?
Il Master in Solismo mi ha portato a affrontare nel concreto le difficoltà del mestiere: se da una parte ho dedicato molto tempo allo studio individuale ed ai recital solistici, parallelamente ho investito energia nel confronto con altre persone in campo musicale e, nello specifico, con un’orchestra e con il suo direttore. La sfida del solista è quella di rapportarsi con un gruppo molto numeroso in un arco di tempo molto limitato, spesso una o due prove, esprimendo le proprie idee ma rispettando l’identità dell’orchestra con cui si trova a lavorare. Questo continuo scambio di idee mi fa pensare all’orchestra come a un grande gruppo di musica da camera. Perciò, nonostante la mia attività solistica e didattica, questa non può che occupare un posto importante nei miei progetti futuri, perché mi offre l'opportunità di confrontarmi con altri musicisti e sperimentare il vero spirito di lavoro di squadra. Dipendere l'uno dall'altro e costruire insieme le interpretazioni musicali mette in discussione le nostre idee personali, portando a risultati unici e a volte molto diversi da quelli che ci aspettavamo individualmente.
Come vivi e come gestisci il momento del concerto e i momenti che lo precedono?
Il momento del concerto per me è il più atteso, il più speciale. La musica è un’arte performativa, per cui le composizioni che interpretiamo nascono, vivono e muoiono ogni volta davanti al pubblico, che diventa l’interlocutore necessario per portare avanti il messaggio del compositore. Quello che possiamo fare è prepararci al meglio per condividere questo messaggio, ma il fattore estemporaneo è sempre presente, nel bene e nel male. Per questo motivo spesso mi capita di essere agitata prima di un concerto, non sempre allo stesso modo, ma quella sensazione è sempre presente. Nei momenti che precedono l’esecuzione è importante per me passare del tempo da sola, rilassarmi e… mangiare tanta cioccolata!

26.07.2023

Mandolino e dintorni, con la benedizione di Stravinsky

Intervista al Quintetto a plettro "Giuseppe Anedda"

di Alessandra Aitini

Venerdì 28 luglio nel panoramico
Spazio Garavello 7 di Morcote si esibirà il Quintetto a Plettro “Giuseppe Anedda” (Emanuele Buzi e Norberto Gonçalves da Cruz, mandolini; Valdimiro Buzi, mandola; Andrea Pace, chitarra; Emiliano Piccolini, contrabbasso). L’ensemble, che prende il nome dal virtuoso cagliaritano che contribuì alla rivalutazione e alla diffusione in ambito classico del mandolino, si è imposto, nei suoi vent’anni di attività, come una delle migliori formazioni a pizzico del panorama internazionale. Conosciamo meglio i suoi membri attraverso una bella chiacchierata che si trasforma in un'intervista corale
Il mandolino è uno strumento conosciuto di nome, ma di più raro ascolto: ci può raccontare quali sono le sue origini, le sue caratteristiche e il suo ruolo nella letteratura musicale?
Il mandolino, pur vantando una storia molto antica, vive il suo periodo d’oro nel ‘700, periodo in cui è apprezzato e praticato nei salotti dell’aristocrazia, prevalentemente studiato da nobili dame sotto la guida di maestri italiani emigrati nelle principali capitali europee. Lo stesso Beethoven, durante un soggiorno a Praga nel 1796, dedica quattro sonatine per mandolino e pianoforte alla contessa Josephina von Clary-Aldringen, che doveva essere evidentemente un’eccellente mandolinista vista la scrittura ricca e virtuosistica. Verso la fine dell’800 il mandolino diventa estremamente popolare in tutto il Regno d’Italia. Suonato da Margherita di Savoia, costituisce un eccellente “spot” nel processo unitario. Il declino, dovuto probabilmente all’esigenza di sonorità sempre più potenti ricercate nelle grandi sale da concerto, fa sì che sia la tradizione popolare a raccoglierlo e a farne lo strumento principe per eccellenza, suonato in ambienti amatoriali e dilettantistici, nelle barberie e in occasione di serenate e feste. Grazie al suono metallico e squillante risulta subito uno strumento “simpatico” e agile, e con l’ausilio del tremolo mostra tutto il suo carattere romantico, struggente e talvolta malinconico. A lui, grandi compositori del passato hanno dedicato pagine immortali, come Vivaldi, Mozart, Beethoven fino a Verdi, Mahler, Schönberg e tanti altri.
Come si distribuiscono ruoli ed equilibri, a seconda dei vari strumenti, nel vostro quintetto?
Nella distribuzione dei ruoli all’interno della formazione cerchiamo di tenere conto delle caratteristiche timbriche ed espressive degli strumenti, così come delle caratteristiche esecutive dei singoli musicisti. Sin dagli inizi di questo viaggio musicale, ormai più di vent’anni fa, ci siamo resi conto di quanto questa formazione presentasse una eterogeneità di timbri strumentali, per cui ci è sembrato da subito fondamentale lavorare al superamento del concetto semplicistico per cui, soprattutto negli arrangiamenti, i temi sono affidati ai plettri (in particolare ai due mandolini) mentre gli altri strumenti “accompagnano” i solisti. Abbiamo lavorato e lavoriamo molto su questo aspetto e speriamo sempre di riuscire a realizzare degli arrangiamenti che mettano in luce la bellezza e le grandi possibilità di tutti. Importantissimo per noi è stato confrontarci con autori come Bach e Vivaldi, ma anche Debussy, Piazzolla e Morricone - compositori che grazie alla loro ricchezza tematica permettono questo lavoro sulle diverse parti.
Quale fu l’apporto di Giuseppe Anedda, musicista da cui il vostro quintetto prende il nome, alla cultura mandolinistica internazionale?Giuseppe Anedda (1912-1997) è stato l’autentico caposcuola del mandolino italiano. Per lui fu istituita la prima cattedra presso il Conservatorio di Padova nel 1975. Il suo grande merito fu quello di riscoprire moltissimi manoscritti originali, per lo più del ‘700, dimenticati nelle principali biblioteche europee: opere di autori quali Cecere, Giuliano, Barbella, Gervasio, Gaudioso, oggi considerate pagine imprescindibili del repertorio accademico. Con più di 5000 concerti, Anedda ha dato un enorme contributo alla rivalutazione del mandolino, restituendogli l’antica dignità e portandolo per la prima volte nelle sale da concerto più prestigiose del mondo. Una vita affascinante, impossibile da raccontare in poche righe, fatta di incontri e collaborazioni con i più grandi musicisti del ‘900, come Stravinsky, che interruppe la prima rappresentazione italiana del suo balletto Agon per correre verso la buca e congratularsi direttamente con lui, gridando “Bravo Mandolino!”, o Pablo Casals, che lo invitò nella sua villa di San Juan di Portorico a tenere un concerto insieme ai più grandi solisti dell’epoca di ogni strumento. Ad Anedda siamo particolarmente legati, avendone conosciuto anche il lato umano e personale. Nella nostra formazione suonano infatti, i suoi due nipoti, Emanuele e Valdimiro Buzi.
Quale particolare luce acquisisce un brano – a prescindere dall’organico originale, dal genere e dall’epoca -  in una trascrizione per quintetto a plettro?

È necessario, importante ed imprescindibile per il nostro quintetto procedere per due necessari step di approfondimento esecutivo per valutare quale luce possa acquisire una nostra  trascrizione. Oltre alla distribuzione delle parti, acquisisce molta importanza la valutazione collettiva dell'impatto del brano. Andando nello specifico quindi i due step sono in primis quanto e come la trascrizione possa generare in noi esecutori una soddisfazione ed un ritorno in termini esecutivi, e in seguito alla resa che questo lavoro ha sul pubblico che ci ascolta, in concerto o nei nostri lavori discografici.

21.07.2023

 

Ecco come suonavano gli antichi greci

Intervista a Conrad Steinmann
(Ensemble Melpomen)

di Alessandra Aitini

Il cartellone di Ceresio Estate giunge con il concerto di sabato 22 luglio alla Chiesa Evangelica riformata di Lugano ad uno dei suoi eventi più particolari, dedicato alle peripezie dell’eroe omerico Ulisse. Protagonisti, in scena, i membri dell’Ensemble Melpomen - Arianna Savall, canto e barbitos; Giovanni Cantarini, canto kithara e lira; Martin Lorenz, tympanon e kimbala; Conrad Steinmann, aulos, kybala, musica e direzione – insieme al carismatico attore ticinese Emanuele Santoro. Ci introduce a questo evento – presentato a Lugano per la prima volta in versione italiana - Conrad Steinmann, archeologo musicale e fondatore dell’Ensemble Melpomen.

Da dove nasce il suo interesse per la musica dell’antica Grecia? E come si diventa archeologi musicali?
Fino all'età di 16 anni avevo intenzione di diventare un archeologo classico, immaginando ovviamente scavi grandiosi! Per questo al liceo ho studiato greco antico. Sono sempre stato attratto dai miti greci, senza dubbio a causa dell'interesse generale dei miei genitori per la storia. Insieme ad un amico liutaio, circa 35 anni fa, abbiamo esplorato vari musei (Londra, Berlino e Taranto) alla ricerca di strumenti antichi, e di fronte ad essi ci chiedevamo con grande curiosità: che suono avevano? Far rivivere il passato e farlo risuonare è stata quindi nel mio caso la forza trainante dell'archeologia musicale. E così la lettura delle fonti in lingua originale, lo studio delle circostanze storiche, la combinazione con gli strumenti ricostruiti, unite all'empirismo ed alla mia immaginazione, hanno portato all'opportunità di suonare con i miei colleghi e amici nell'ensemble Melpomen.

Com’è strutturato lo spettacolo che portate a Ceresio Estate? E qual è il suo personale rapporto con la figura di Ulisse?
Lo spettacolo è strutturato in modo tale che un narratore - in questo caso Emanuele Santoro - guidi il pubblico, attraverso la musica cantata in greco antico, per comprendere a livello letterario ciò che sta accadendo sul palco. Così di volta in volta il narratore - una volta nei panni di Omero, una volta in quelli di Ulisse, ma anche semplicemente come guida turistica - racconta alcuni brani, musicati, del ritorno di Ulisse. Quando arriva a casa, sconosciuto, finalmente si zittisce per ascoltare la moglie Penelope.

Si ritrovano elementi provenienti dalla cultura o dagli usi e costumi dell’antica Grecia nelle varie espressioni musica moderna occidentale?
Direi di no, anche se non direttamente per quanto riguarda la musica greca. Ne esistono certamente tracce nella musica tradizionale registrata dai musicologi negli anni tra le due guerre, tracce strumentali che a volte si trovano ancora in Egitto, in Sardegna e forse in villaggi lontani dai centri.

Che ruolo hanno l’immaginazione e la suggestione, oltre al lavoro sulle fonti, nella sua attività di ricerca e di creazione?
Beh, questa è certamente la domanda decisiva, il "Gretchenfrage": come si arriva alla musica che presentiamo? Mi sento un po' come uno "scienziato forense", alla ricerca di tutti i dettagli che abbiamo, non per trovare una "vittima", ma al contrario: la vita, e quindi le condizioni e le possibilità degli strumenti ricostruite da fonti primarie, le informazioni musicali forniteci dalla poesia greca, le tecniche strumentali che conosciamo da tradizioni ancora vive. Alla fine, creo la musica in modo vario, forse più vario che all'epoca, chissà. Nel caso del nostro Ulisse, la musica potrebbe essere paragonata ai recitativi, che sono certamente diversi dai canti veri e propri. Per inciso, non è un caso che l'opera di Monteverdi "Il ritorno d'Ulisse" sia costituita per la maggior parte da recitativi. Ma, per farla breve, l'obiettivo è sempre lo stesso: sorprendere, catturare e divertire il pubblico. Saremo felici se riusciremo a raggiungere questo obiettivo a Lugano!

14.07.2023

Siamo la base armonica di un'orchestra

Intervista a Yann Thenet
(Ensemble Astera)

di Alessandra Aitini

Sabato 15 luglio alle ore 20.30, nell’accogliente sagrato-giardino della Chiesa parrocchiale di Torricella, si esibirà per Ceresio Estate il quintetto a fiati Ensemble Astera (Coline Richard, flauto; Yann Thenet, oboe; Moritz Roelcke, clarinetto; Gabriel Potier, corno; Jeremy Bager, fagotto), gruppo internazionale composto di giovani e poliderici professionisti, di recente vincitore del prestigioso Concorso “Carl Nielsen” (Danimarca). Ci avviciniamo al concerto attraverso una chiacchierata con Yann Thenet, oboista del quintetto.

Orchestra e musica da camera: come si mescolano, nella vostra attività, queste due esperienze?
Le due formazioni sono strettamente legate, per la loro stessa natura: i cinque strumenti del quintetto di fiati (flauto, oboe, clarinetto, corno e fagotto) costituiscono la base dell'armonia di un'orchestra. Fin dalle nostre prime esperienze orchestrali siamo stati abituati a fondere i suoni di questi strumenti per creare unità. L'obiettivo dei musicisti, nell'orchestra come nella musica da camera, è quello di riuscire a suonare "insieme" - ritmicamente e in termini di precisione - ma soprattutto convergendo verso un'idea musicale comune, che per noi è la cosa essenziale.

Il vostro quintetto è stato fondato nel 2019, poi è arrivato il Covid, poi una dopo l’altra la ripresa e la vittoria al Concorso Nielsen. Ci puoi raccontare come si è sviluppata la vostra storia?
La storia dell'Ensemble Astera risale in realtà a prima del 2019, in quanto ci eravamo già incontrati e conosciuti alla Haute Ècole de Musique di Losanna durante diversi periodi di studio. Ad un certo punto è capitata l’occasione di suonare insieme come quintetto ed eravamo tutti molto soddisfatti del modo in cui il gruppo lavorava, ma eravamo anche molto impegnati per conto nostro. Solo dopo aver terminato gli studi a Losanna ci siamo resi conto che questo gruppo meritava più tempo ed è stato allora che abbiamo fondato l'Ensemble Astera. Siamo grandi amici e ci troviamo incredibilmente bene insieme dal punto di vista musicale (cosa rara!), così ci siamo impegnati sempre di più in questo progetto.

C’è all’interno del programma per Ceresio Estate un pezzo a cui siete particolarmente legati?
Tutti i brani che suoneremo a Torricella hanno un significato speciale per noi: Ravel, di cui suoniamo una trascrizione di “Ma Mère l’Oye”, è un compositore che ci piace molto, oltre al fatto che l'estetica del nostro gruppo è molto vicina alla musica francese in generale. Il Quintetto di Nielsen è, ovviamente, il nostro pezzo forte, in quanto ci ha permesso di vincere l'omonimo Concorso. Infine, “Quadri di un’esposizione” di Moussorgskj è forse il brano che più ha ispirato il nostro ensemble, poiché è il pezzo che ha riunito per la prima volta due membri del nostro gruppo come quintetto, e che quindi è sicuramente in qualche misura responsabile della creazione dell'Ensemble Astera.

Come vi hanno cambiati la preparazione, la partecipazione e la vittoria al Concorso Nielsen?
Il parametro più complicato per il nostro ensemble è la gestione del tempo. Tutti noi abbiamo diversi impegni personali durante l'anno. Riunirsi è un'impresa non da poco e purtroppo il tempo a disposizione è spesso scarso. Ciononostante abbiamo sempre avuto fiducia nel nostro quintetto e abbiamo pensato che un concorso come questo potesse farci bene, per la nostra motivazione e per la nostra visibilità. Questo ci ha aiutati ad ottimizzare l’organizzazione ed alla fine la vittoria del 1° premio è stata una sorpresa per noi, nel senso che era solo la prima volta che gareggiavamo contro altri quintetti di fiati, per di più in un contesto internazionale. È stata un'esperienza incredibile: vivere insieme per oltre una settimana, condividere quelli che ora sono ricordi molto belli - lo stress, le emozioni e il palcoscenico - e trasmettere su larga scala la nostra passione per la musica da camera e il quintetto di fiati. I premi vinti sono un meraviglioso riconoscimento del nostro lavoro e del nostro investimento, e non abbiamo intenzione di fermarci qui: siamo pieni di progetti per il futuro dell'Ensemble Astera.

03.07.2023

Tra madrigale e commedia

Intervista a Giuseppe Maletto
(La compagnia del madrigale)

di Alessandra Aitini

Giovedì 6 luglio alle ore 20.30 Ceresio Estate torna a far risuonare i suggestivi spazi della Chiesa dei SS. Fedele e Simone a Vico Morcote con un concerto dal programma particolare. Verrà eseguito infatti a cappella, dalla Compagnia del Madrigale (Carlotta Colombo e Francesca Cassinari, soprani; Elena Carzaniga, contralto; Giuseppe Maletto e Raffaele Giordani, tenori; Matteo Bellotto, basso), “Le veglie di Siena” di Orazio Vecchi, appartenente al genere della commedia armonica. Ce ne parla il tenore Giuseppe Maletto.

Con quali finalità è nato il vostro gruppo e come sono maturati i vostri obiettivi nel tempo?
La Compagnia del Madrigale è nata nel 2009 e le finalità sono già evidenti nel nome che abbiamo scelto: siamo un gruppo di cantanti legati da una profonda amicizia e da anni di collaborazioni in vari ensemble e abbiamo deciso di riunirci per approfondire e divulgare il grande patrimonio musicale e culturale del madrigale italiano, repertorio nel quale tutti i membri del gruppo hanno maturato una grande esperienza. La Compagnia ha riscosso subito molto successo sia nell'attività concertistica che discografica, per la quale abbiamo ricevuto numerosi premi, come Diapason d'Or de l'année e Grammophone Award. Negli anni abbiamo approfondito in particolare lo studio dei madrigali di Carlo Gesualdo, a cui abbiamo dedicato numerose incisioni e concerti, senza trascurare i più tutti importanti madrigalisti, ma abbiamo anche riscoperto opere di autori meno famosi ingiustamente caduti nell'oblio. Oltre al madrigale abbiamo dedicato anche la nostra attenzione ad importanti composizioni sacre come i Responsoria di Gesualdo e il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi.

Orazio Vecchi e la “commedia armonica”: cosa ci può raccontare a riguardo?
Orazio Vecchi è stato il creatore di un nuovo genere musicale. La Commedia Armonica è uno spettacolo in cui nella forma polifonica in uso all'epoca si rappresentano delle scene tratte soprattutto dalla tradizione della Commedia dell'arte. L'idea di rappresentare delle scene, situazioni comiche, o degli avvenimenti in forma polifonica fu già utilizzata nel '500 in particolare da Clement Janequin, in brani come La bataille, che riproduce una serie di suoni onomatopeici che evocano i rumori della guerra, o in Le chant des oiseaux, in cui è appunto imitato il canto degli uccelli di bosco. In Italia Alessandro Striggio seguì l'esempio con le commedie madrigalesche Il Cicalamento delle donne al bucato, La Caccia, e Il Gioco di primiera. Vecchi ebbe l'idea di raccogliere diversi brani di questo genere in cui descrive situazioni, spesso comiche, alternandoli a madrigali "tradizionali" uniti da un filo conduttore. La prima sua creazione, L'Anfiparnaso, ebbe un grande successo e Le Veglie di Siena è la sua ultima e più importante opera. Altri autori come Adriano Banchieri e Giovanni Croce seguirono l'esempio, ma questo genere fu purtroppo presto dimenticato, come tutto il madrigale polifonico, soppiantati dall'opera.

Quali sono gli autori a cui siete più legati, e perché?
Sicuramente prima di tutti Claudio Monteverdi, che ha portato il genere del madrigale a risultati di bellezza e profondità espressiva ineguagliati; poi Carlo Gesualdo, che con la sua musica aspra e a volte difficile ha dipinto come nessun altro i tormenti dell'animo umano. Siamo particolarmente legati anche a Luca Marenzio, per la sua scrittura trasparente e la grande varietà espressiva. Dovrei comunque citare molti altri autori, come Giaches de Wert, Luzzasco Luzzaschi, Cipriano de Rore, lo stesso Orazio Vecchi. Il madrigale è un repertorio immenso e non si smette mai di scoprire delle gemme preziose.

Quali sono i vostri progetti per il futuro?Nelle prossime settimane registriamo Le Veglie di Siena di Vecchi, mentre in autunno incideremo un disco antologico dedicato a madrigali di autori fiamminghi e italiani; parallelamente proseguiamo con l'attività concertistica.

22.06.2023

C'è tanto della nostra città nella musica che suoniamo

Intervista ad Andrea Vio (Quartetto di Venezia)

di Alessandra Aitini

Giovedì 22 giugno alle ore 20.30, nella Chiesa di Sant’Abbondio di Gentilino, per Ceresio Estate si esibisce il Quartetto di Venezia, formazione storica del camerismo italiano. Ci introduce al concerto Andrea Vio, primo violino della formazione.

Il programma - con Mozart, Malipiero, Brahms – rispecchia la formazione del Quartetto di Venezia, tra scuola italiana e mitteleuropea. Come si amalgamano queste diverse tradizioni nella vostra identità?
Sono proprio queste due scuole che hanno formato nei primi anni il Quartetto di Venezia: la scuola italiana con Piero Farulli, violista del celebre Quartetto Italiano, e Sandor Vegh e Paul Szabo del Quartetto Vegh. Ad influire in modo determinante sulla nostra formazione è stato in particolare Sandor Vegh, che abbiamo seguito a partire dal 1981. Vegh partiva sempre da un concetto di tipo tecnico non fraintendibile: un incredibile artigianato del far musica, di straordinaria levatura artistica. Vegh ci ha insegnato inoltre la cura minuziosa del piccolo dettaglio, che a volte fa la grande differenza. A partire dal 1986 abbiamo invece frequentato i corsi di Piero Farulli all’Accademia Chigiana, in quegli anni una tappa fondamentale per tutti i giovani quartetti italiani. Farulli ci ha dato un impulso tecnico e musicale molto forte. Ci ha sottolineato la centralità di Beethoven e ci ha spinti fin da subito a studiare i suoi ultimi quartetti

Il Quartetto di Venezia ha una lunghissima carriera: ci può raccontare un ricordo chiave? E qual è invece il suo augurio al Quartetto di Venezia per il futuro?
Ottobre 1983, Teatro La Fenice, prima uscita ufficiale del Quartetto di Venezia (avevo 20 anni). Abitavo vicino al Teatro: la mattina del concerto vado in biglietteria per chiedere se c'erano ancora biglietti per un amico, guardo il cartellone fuori del Teatro: "TUTTO ESAURITO". Spalanco gli occhi e mi prende il terrore... aiuto! Com'è possibile, non ci conosce nessuno ed è tutto esaurito? Telefono ai colleghi: "fioi... xe tuto esaurito!" "Ma va... no' sta' dir monae..." "Ve lo giuro, non sto scherzando". Penso che anche loro in quel momento siano stati colti dal panico... La sera entriamo sul palcoscenico col cuore che batte a mille. Guardiamo di fronte a noi ed è tutto pieno di gente, ma tanta, e pensiamo: che spettacolo, questa è la nostra strada! Il mio augurio per il futuro è di continuare a lavorare con lo stesso entusiasmo e con la curiosità di scovare sempre nuovi mondi sonori ed interpretativi.

Malipiero si pone come pietra miliare della storia del quartettismo italiano, seppur sia un autore poco conosciuto. Come vi siete avvicinati alla sua figura?
Malipiero ha accompagnato gran parte della nostra carriera. Ci siamo avvicinati a lui innanzitutto in quanto compositore veneziano; in seguito abbiamo effettuato la registrazione integrale dei suoi 8 quartetti, composti tra il 1920 e il 1964. Nei suoi quartetti descrive le tipiche atmosfere di Venezia, la vivacità dei suoi abitanti, la nebbia, e tanti altri aspetti caratteristici della città lagunare. Solo dei musicisti radicati in questa città così unica al mondo possono rendere appieno sul piano dell’interpretazione musicale le immagini da lui evocate: e non v’è dubbio che noi abbiamo nel sangue questo tipo di musica.

Il programma del Vostro concerto per Ceresio Estate risponde al titolo di “Dal Danubio alla Laguna”: passando per Lugano, si può dire che l’acqua sia l’elemento ricorrente. Qual è il legame del vostro fare musica con questo elemento?
La nostra città vive sull’acqua, una laguna che crea atmosfere di grande dolcezza, e di fronte al mare adriatico, che sembra mansueto ma spesso è capace di trasformarsi in un gigante molto potente. Credo di poter dire però che il nostro modo di sentire la musica, le emozioni, la fantasia, il fraseggio siano fondamentalmente legate all’essere veneziani. La nostra è una città dove, già da piccoli, si vive attorniati da bellezze artistiche e naturali uniche che inevitabilmente diventano formative per il sentire di ogni veneziano.

02.09.2022

Dalla Musikhochschule alle sale da concerto

Intervista a Tobias Wicky

di Alessandra Aitini

Venerdì 2 settembre nella Chiesa di Tesserete la 46ª stagione di Ceresio Estate si chiuderà in bellezza sulle note dei madrigali di Heinrich Schütz, compositore tra i fautori del barocco tedesco ed a lungo residente in Italia, ove conosciuto con il nome di Enrico Sagittario. L’onore e l’onere di interpretarne le opere spetterà all’Ensemble vocale “Voces Suaves”, già ospite della rassegna luganese, di cui abbiamo incontrato il fondatore, il baritono Tobias Wicky.

Il vostro ensemble si dedica in gran parte alla musica vocale a cappella. Quali sono le differenze tecniche che questo tipo di repertorio implica, rispetto a brani con accompagnamento strumentale?
Cantare a cappella rappresenta una bellissima sfida. In primo luogo la voce non può essere intonata meccanicamente come uno strumento, di conseguenza cantare veramente intonati richiede grande concentrazione ed abilità. Questo è un aspetto su cui noi lavoriamo sia individualmente che come gruppo. Vi sono poi altre questioni tecniche che determinano una buona amalgama tra le voci - come l’uso del vibrato l’uniformità delle vocali fra i cantanti. Cantare a cappella è qualcosa di molto più “nudo” e delicato, ma può essere incredibilmente bello e soddisfacente. Nei nostri programmi alterniamo opere a cappella a brani con accompagnamento strumentale, in modo da offrire al pubblico diverse sonorità.

Heinrich Schütz: come potrebbe presentare questo compositore – ben noto ed apprezzato dagli addetti ai lavori – ad un pubblico che per la prima volta si appresta all’ascolto delle sue opere?
Heinrich Schütz è definito talvolta “il padre della musica tedesca” e sicuramente è uno dei più importanti predecessori di J.S. Bach. È vissuto fino alla veneranda età di 87 anni ed ha esercitato una grande influenza come compositore e maestro. Al giorno d’oggi è conosciuto soprattutto per la sua musica sacra in lingua tedesca – ad esempio per le sue “Musicalische Exequien” che abbiamo registrato un paio di anni fa. Tuttavia lui era un compositore molto internazionale e curioso e da giovane effettuò i propri studi a Venezia, in San Marco, con Giovanni Gabrieli. La musica di Schütz mostra molto chiaramente l’influenza dello stile italiano: in essa si combinano virtuosismi tecnici di grande qualità (nella maestria del contrappunto e dell’armonia), con un vero senso del dramma. Per questa ragione, per il 350° anniversario della morte di Schütz abbiamo deciso di eseguire di eseguire i suoi madrigali italiani - che sono proposti molto raramente, ma che sono pezzi straordinari - insieme ai madrigali dei suoi modelli italiani, Monteverdi e Gabrieli.

La voce e l’ambiente: come affrontate e come lavorate il rapporto con la spazialità, sia a livello individuale che a livello di ensemble?
Noi cerchiamo sempre di rendere l’esecuzione interessante per il pubblico e per noi stessi. Talvolta la musica richiede davvero una precisa disposizione delle voci nello spazio. Usiamo sempre una prova di assestamento, nel luogo del concerto, in modo da poter valutare le varie possibilità. Qualche volta è l’acustica che ci suggerisce – specialmente nelle chiese – qual è il luogo migliore in cui posizionare i cantanti. Ma spesso noi esploriamo alcune possibilità ed usiamo, se troviamo delle soluzioni efficaci, differenti posizioni nello stesso concerto. A differenza di chi suona strumenti anche pesanti, per noi cantanti è molto facile muoversi e la distanza o la prossimità di un cantante rispetto all’ascoltatore può essere molto interessante.

Da fondatore di “Voces Suaves”, ripercorrendo l’attività dell’ensemble dal 2012 ad oggi, può trarre un breve bilancio? Quali erano le sue aspettative allora e che futuro vede oggi per Voces Suaves?
Voces Suaves è stato fondato nel 2012 come un ensemble di studenti, nell’ambito di un progetto di Bachelor, e non aveva particolari obiettivi. Il fatto che noi già da 10 anni lavoriamo insieme e teniamo concerti in prestigiosi festival non ci sarebbe sembrato possibile a quel tempo. In tutti questi anni abbiamo lavorato molto duramente e siamo orgogliosi e felici per essere arrivati così lontani insieme. Vorremmo portare avanti l’ensemble nel futuro ed approfondire le collaborazioni con altre istituzioni culturali.

27.08.2022

Dalle montagne ai teatri: il viaggio del corno delle Alpi

Deutsche Fassung (Tessiner Zeitung)

Intervista a Carlo Torlontano

di Alessandra Aitini

Domenica 28 agosto alle ore 19.00, presso la Chiesa di Santa Maria del Sasso di Morcote, si esibirà una formazione più unica che rara, ovvero il duo “Alphorn & Organ”, composto da Carlo Torlontano al corno delle alpi e da Francesco di Lernia all’organo. Carlo Torlontano ci introduce al concerto raccontandoci del suo particolarissimo strumento e del suo grande amore per esso.

Da dove nasce e come si è sviluppata la sua passione per il corno delle Alpi?
Più di 20 anni fa, durante un viaggio sulle Alpi, ho provato a suonare un corno delle Alpi e subito mi sono innamorato della sua sonorità: potrei dire “un amore a prima vista”! Ero rimasto particolarmente affascinato dalla purezza del suono e dalla sensazione di sentire dentro di me tutte le vibrazioni che questo strumento di legno produce, provando così sempre un grande senso di tranquillità e benessere. Ho iniziato a studiare musica all’età di 10 anni e il mio primo strumento è stata la tromba, ma poco dopo sono passato al corno. Dopo essermi diplomato in corno al Conservatorio di Pescara, ho vinto il concorso di 1° corno all'Orchestra Sinfonica Abruzzese (L’Aquila) con la quale a diciotto anni ho iniziato la mia carriera orchestrale; successivamente ho ricoperto per diversi anni il ruolo di 1° corno in diverse orchestre italiane (RAI, Teatro San Carlo di Napoli, Teatro Lirico di Cagliari). Ma dopo aver scoperto il corno delle Alpi ho deciso di lasciare il mio lavoro in orchestra per dedicarmi all’attività solistica con questo strumento, effettuando tournée in tutta Europa, Asia, Australia e Nord America. Ho così introdotto il corno delle alpi nelle sale da concerto, proprio come tutti gli altri strumenti. La mia intenzione principale, che amo chiamare la mia “missione”, è portare il corno delle Alpi in giro per il mondo per dare la possibilità al pubblico di ogni parte del pianeta di godersi la bellissima e sensazionale melodia di questo strumento non comune.

Qual è stato (e come si è modificato) il ruolo del corno delle alpi nelle varie epoche storiche?
Il corno delle Alpi è uno strumento che nonostante i tanti anni non è mai cambiato nella sua costruzione, di conseguenza non c’è stata un’evoluzione, come accaduto per altri strumenti a fiato: il corno delle alpi è rimasto così come lo costruivano nell’antichità. Questo strumento serviva per inviare segnali di chiamata da montagna a montagna o da malga a malga. I pastori da sempre avevano (e forse hanno ancora oggi) l’abitudine di costruire strumenti musicali con materiali a portata di mano. Si racconta infatti – e questo è un aneddoto, ma penso possa corrispondere alla realtà – che un pastore un giorno ebbe l’idea di scavare dentro il tronco di un giovane abete e di soffiarvi dentro – e da qui possiamo immaginare l’invenzione del corno delle alpi. Dopodiché esso è rimasto così com’era in origine. Successe tuttavia che un giorno Leopold Mozart ebbe l’occasione di ascoltare un viandante che suonava lungo le strade per raccogliere l’elemosina e rimase così colpito, oltre che dalla bravura dello strumentista, dalla sonorità particolare di questo strumento, che decise di inserirlo in una sinfonia per archi che stava scrivendo: la chiamò “Sinfonia Pastorella”. Questo brano era in realtà per un altro strumento, il “corno pastoriccio”, che era come il corno delle alpi, ma un pochino più corto, più comodo per essere trasportato dai pastori. In seguito non c’è stata molta musica scritta per il corno delle Alpi. Io mi sono un po’ dato da fare a convincere i compositori a scrivere per questo strumento, sempre nell’ottica di realizzare la mia “missione” di portare il corno delle alpi come solista nei teatri e nelle sale da concerto. Ci sono quindi vari autori che hanno scritto per corno delle Alpi ed in particolare mi piacerebbe citare due italiani: Giovanni D’Aquila, che ha scritto un bellissimo concerto per corno delle alpi a me dedicato, che suoneremo per Ceresio Estate nella versione con organo, e Nicola Samale, eclettico compositore e direttore d’orchestra, molto noto per aver terminato le sinfonie incompiute di Bruckner e di Mahler. La sua versione “finita” dell’Incompiuta di Bruckner è stata eseguita e registrata dai Berliner Philarmoniker.

Ci può “svelare” le particolarità e i segreti timbrici della formazione di duo corno delle alpi – organo? E cosa ci può dire a proposito della relazione tra il corno delle Alpi e lo spazio circostante, che si tratti di un ambiente aperto o di uno spazio chiuso?L’organo è in un certo senso un’orchestra, molto più di un pianoforte. E il corno delle alpi non è nient’altro che una canna d’organo - la differenza sta solo nel materiale: in pratica potremmo dire che il corno delle alpi è una canna d’organo in legno. Quando un giovane abete nasce ed inizia a crescere, in montagna, la neve ne piega la prima parte dando luogo ad una curvatura che sale dalla base verso il cielo. Una volta che si trova l’albero con la curva giusta, si decide che quello è il futuro corno delle alpi. Quindi viene tagliato, viene diviso in due verticalmente, le due parti vengono lavorate singolarmente e vengono scavate e incavate fino ad uno spessore che va dai 4 ai 7 millimetri, dopodiché le due parti vengono riunite e a questo punto abbiamo lo strumento finito. Non essendoci fori, chiavi o pistoni, il suono viene prodotto soltanto dalle vibrazioni delle labbra attraverso una serie di armonici. Quindi oltre ad essere uno strumento particolarmente complicato per lo strumentista, lo è ancora di più per il compositore, perché quest’ultimo non ha tutte le note per scrivere una melodia, inoltre è limitato ad alcune tonalità, per altro non particolarmente congeniali. Questo però lo rendo anche uno strumento unico, perché essendo rimasto com’era in origine conserva un suono meraviglioso. È uno strumento che ha un suono che si propaga a lungo raggio (fino a 6/7 km) senza che, in un ambiente aperto, se ne percepisca la sorgente, perché è un suono che ti avvolge. È come cercare una cosa in un labirinto, non la troverai mai, specie se ci si trova tra vette montuose tra cui interviene anche l’eco. Ha un suono dolcissimo, quindi non è associabile agli ottoni, bensì ai legni. E questa sua dolcezza fa sì che parallelamente sia molto adatto alla musica da camera, anche in spazi chiusi come chiese o teatri, senza che sia mai “troppo”, come talvolta erroneamente si pensa. E nel connubio con l’organo questa dolcezza di suono fa sì che si vengano a creare delle ambiguità sonore molto affascinanti: in certi momenti non si capisce chi stia suonando, tanto i suoni dei due strumenti si intrecciano e si fondono.

19.08.2022

Una vita sul filo della musica 

Intervista ad Akvilė Šileikaitė

di Alessandra Aitini

Venerdì 19 agosto alle 20.30, nella Sala Ex-Municipio di Castagnola, si esibisce un duo molto particolare, composto dalla pianista lituana Akvilė Šileikaitė e dal percussionista svizzero Fabian Ziegler, coppia sia artistica che nella vita. Abbiamo conosciuto da vicino Akvilė Šileikaitė, artista poliedrica, che ci introduce al concerto.

Pianista, fotografa e pittrice: quale di queste forme d’arte l’ha raggiunta per prima e come si intersecano tra loro nella sua attività e nella sua vita?
La musica mi ha accompagnata già da prima che io nascessi: mentre era incinta, mia madre mi suonava spesso ninne nanne lituane e così ha continuato a fare nel corso del mio primo anno di vita. A casa avevamo un pianoforte e da subito mi ha attratto, mentre la mia educazione musicale professionale ha avuto avvio all’età di 6 anni. La pittura è arrivata un po’ più tardi, verso i 7/8 anni, nel momento in cui ho iniziato a frequentare uno studio d’arte. La fotografia invece è sempre stata una passione di mio padre, dunque penso di aver ricevuto l’influenza di entrambi i miei genitori [sorride]. Tutte e tre queste forme d’arte mi accompagnano ancora, ma a diversi livelli: professionalmente mi definisco una pianista e una fotografa. Attualmente sono meno attiva nella pittura, ma quando mi capita di ricevere una commissione il ricavato della vendita viene devoluto a fondazioni di beneficienza. Penso che, in una forma o nell’altra, l’arte sia ovunque: i miei trascorsi e le mie attività nel mondo dell’arte hanno plasmato la mia personale visione del mondo e della vita con i suoi momenti ed esperienze.

A Ceresio Estate interpreterà, in duo con Fabian Ziegler, musiche che spaziano dal barocco al contemporaneo. Qual è stata le genesi di questo programma, quali sono state le scelte o le idee hanno portato alla sua elaborazione?
In questo programma ci siamo focalizzati su una grande varietà di epoche e sulle loro possibili connessioni con la musica contemporanea, anche attraverso importanti esempi di musica da camera. Ci siamo quindi concentrati su pezzi che possono essere associati a questi due temi: ad esempio, passano circa 300 anni tra Scarlatti e Schnittke, ma se uno era un compositore barocco, l’altro era affascinato dalla musica barocca e ne usa le forme nel brano che proporremo. Beethoven e Psathas sono entrambi grandi maestri di musica da camera nel senso classico e nel senso moderno del termine. E io aspetto con molta trepidazione questo concerto!

Com’è nata e come si è evoluta la collaborazione con il compositore neozelandese John Psathas, di cui a Castagnola eseguirete due brani, “Halo” e “Atalanta”?
Il mio contatto personale con Psathas si è realizzato in realtà attraverso Fabian. John Psathas è un importante compositore per i percussionisti e Fabian aveva sempre voluto commissionargli qualcosa, ma non aveva ben chiaro cosa o per che tipo di organico. In quel periodo io e lui abbiamo iniziato a frequentarci e Fabian ha pensato che era necessario commissionare qualcosa per pianoforte e percussioni, così da avere una ragione per vederci e lavorare insieme. Ecco, ha funzionato!

Quali sono i vostri progetti in duo per il futuro?
In questo momento stiamo definendo un’idea per il concerto di presentazione dell’album “Modern Gods”, che si terrà il 4 novembre a Zurigo, incentrato su musica di John Psathas. Stiamo cercando di combinare differenti forme d’arte in un’unica esperienza estetica per il pubblico (musica di Psathas, lavori artistici di Lauryna Narkevičiūtė che sarebbero mescolati fra musica, luci, installazioni e – cosa più importante – un’esperienza audiovisiva di “concerto” non tradizionale). Inoltre abbiamo sempre in programma di commissionare ed eseguire nuovi pezzi per il nostro duo o di presentare un grande lavoro - sempre di Psathas: un doppio concerto per pianoforte, percussioni e orchestra, intitolato “Veduta dall’Olimpo”.

12.08.2022

Intervista a Milo Ferrazzini

di Alessandra Aitini

Domenica 14 agosto, nella Chiesa di San Tommaso ad Agra, va in onda sulle frequenze di Ceresio Estate un concerto "made in Ticino" e di stampo familiare, con il duo di violoncelli formato da Claude Hauri e dal figlio Milo Ferrazzini. Ed è proprio quest'ultimo a concederci una breve intervista con cui ci introduce al concerto.
Ci vorresti raccontare com’è nato e come si è evoluto questo progetto in duo – che da anni sta riscuotendo molti successi - con tuo padre Claude Hauri?
Il primo concerto pubblico in duo mi pare fosse nel 2014, nella chiesetta dell’eremo di San Nicolao sopra Mendrisio. Da quel momento sempre più spesso ci siamo esibiti in duo, sia in Svizzera che all'estero, suonando in importanti sale quali ad esempio il Teatro Bibiena di Mantova o la Sala Maffeiana di Verona, sia come semplice duo che nel ruolo di solisti con orchestra. Sin da subito mi sono divertito molto a suonare con mio padre e soprattutto c’è stata un’ottima intesa musicale, che ovviamente negli anni si è rafforzata e che ci permette di lavorare molto bene insieme.
Il programma che eseguirete ad Agra vede l’alternanza tra brani classici e pezzi contemporanei di autori svizzeri scritti appositamente per voi. Come si sono sviluppate queste collaborazioni?
In tutti e 3 i casi la collaborazione tra i compositori e mio padre nasce molti anni fa, Paul Glass è stato docente di Claude al Conservatorio mentre con Luigi Quadranti il rapporto si è sviluppato grazie all’associazione Musica nel Mendrisiotto. Di entrambi questi compositori abbiamo già suonato diversi brani in duo, mentre per quanto riguarda Mathias Steinauer questa sarà la prima volta che eseguiremo un suo brano per duo di violoncelli. Tuttavia la sua scrittura non mi è del tutto sconosciuta avendo eseguito col gruppo theXcellos un suo brano al concorso svizzero di musica per la gioventù, e cominciando a studiare la nuova composizione mi è subito apparsa chiara la qualità della stessa.
Cosa si prova ad eseguire un brano in prima assoluta?
L'aspetto più interessante e appagante, in questo caso, è la possibilità di collaborare direttamente col compositore vivente, cosa spesso impossibile. C’è dunque un intenso scambio di opinioni e idee musicali molto interessante.
Attualmente ti stai perfezionando con Maximilian Hornung presso la Hochschule für Musik und Theater di Monaco di Baviera. Come si inserisce l’attività di duo nel tuo percorso di crescita musicale?
La possibilità di esibirmi spesso in pubblico che ho suonando in duo con mio padre mi permette di migliorare molto a livello musicale e soprattutto di accumulare esperienza sul palco, cosa che è possibile fare solo suonando dal vivo in concerto.

07.08.2022

 

Il "romantico" Quartetto Altemps

Intervista a Marco Testori

di Alessandra Aitini

Domenica 7 agosto, nella Chiesa Parrocchiale di Caslano, si esibisce per Ceresio Estate il Quartetto Altemps, gruppo di recente formazione, ma composto da musicisti (Stefano Barneschi e Fabio Ravasi, violini; Ernest Braucher, viola; Marco Testori, violoncello) di solida esperienza – maturata all'interno di ensemble di fama internazionale, come "Il Giardino Armonico", "Europa Galante", Kammerorchester Basel", "I Barocchisti", "Il Suonar Parlante". Ci introduce al concerto il violoncellista Marco Testori.

George Onslow è un compositore francese con origini inglesi: un altro mondo rispetto all’austriaco Franz Schubert. Quali sono i punti di contatto e di distacco tra i due?
Onslow fu principalmente un prolifico compositore di musica da camera che ebbe forte seguito in Germania e in Inghilterra; stimato dai critici del suo tempo tanto da essere chiamato “il Beethoven francese”, la sua reputazione declinò rapidamente dopo la sua morte. La sua ricchezza, la posizione sociale e i gusti personali gli permisero di perseguire un percorso sconosciuto alla maggior parte dei suoi contemporanei francesi, più simile a quello dei compositori romantici tedeschi e austriaci del tempo. È proprio il suo interesse per le forme classiche, il contrappunto e l'espressività emotiva nella sua musica a collocarlo vicino a Reicha, Hummel, al Beethoven più classico e dunque a Schubert. Queste affinità si ritrovano nelle sonorità e nelle atmosfere del quartetto Rosamunda di Schubert, in particolare se si pongono a confronto, tra quest’opera e il quartetto di Onslow, i movimenti lenti: in entrambi i casi spiritualità e serenità sono interrotte da momenti di romantico pathos emotivo.

Nel contesto di un generalizzato e crescente interesse verso la musica eseguita in modo filologico, qual è l’aspetto che più distingue il vostro quartetto?
La nostra cifra esecutiva vuole essere quella di una lettura del repertorio romantico con l'approccio di chi viene dal passato e non, come spesso accade, facendo un percorso a ritroso proveniente dal modo di suonare “moderno”. Ciò, a nostro avviso ci aiuta a liberare questa musica dalle “incrostazioni” esecutive legate alla tradizione novecentesca. In quest'ottica cerchiamo ad esempio di utilizzare il vibrato al pari di un abbellimento e non in maniera sistematica, di rispettare le legature pensate dal compositore, di impiegare l'agogica come mezzo per esaltare gli affetti musicali.

Tutti voi – membri del Quartetto Altemps – avete una florida attività in gruppi ed ensemble di livello internazionale. Cosa vi ha spinti a costituire una vostra propria formazione stabile?
Il quartetto d'archi è sempre stato il nostro sogno nel cassetto. La comune passione per la musica da camera ci ha portati a suonare spesso insieme all'interno di svariate formazioni dedite al rispetto per la prassi esecutiva finché non ci siamo detti: perché non tentare? Perché non provare a dire la nostra su un repertorio che racchiude pagine tra le più belle di tutta la storia della musica?

Nel vostro programma figura “Rosamunde”, uno dei capolavori di Schubert e della storia della musica. Esiste una relazione tra la vostra esecuzione e ciò che “sta dietro” la composizione?
Il quartetto in la minore deve il proprio nome “Rosamunde” al tema del secondo movimento, che riprende quello già utilizzato per la musica di scena composta da Schubert per il dramma omonimo di Helmina von Chezy. In realtà Schubert parte dalla melodia sviluppando un percorso che con la musica di scena non ha più alcun riferimento. Stessa sorte per il primo movimento, il cui incipit proposto dal secondo violino ricorda il tema malinconico di uno dei primi lieder di Schubert “Gretchen am Spinnrade” o il minuetto, ispirato alla melodia di “Die Götter Griechenlands”. L'impiego di temi di lieder per creare nuove composizioni era una pratica usuale in Schubert e il nostro approccio in questi casi è quello di entrare in sintonia col materiale tematico originale per poi contestualizzarlo nella musica per quartetto.

29.07.2022

Suonare con l'anima

Intervista ad Andrea Leonardi

di Alessandra Aitini

Martedì 2 agosto, nella Chiesa Parrocchiale di Torricella, si esibisce per Ceresio Estate il giovane e versatile Alma Saxophone Quartet. Andrea Leonardi ci parla del gruppo, delle sue scelte e dei progetti futuri.

“Alma Saxophone Quartet”: a cosa è dovuta la scelta di questo nome dalle origini lontane? Esiste una relazione tra il vostro nome ed il momento della vostra formazione?
Il nostro nome deriva dal nostro scopo principale, ovvero quello di mettere l’anima in ogni esibizione. Prima ancora che colleghi, noi siamo anzitutto quattro amici che hanno condiviso molte esperienze - musicali e non - e che cercano di trasmettere al pubblico che ci ascolta il nostro modo di vivere la musica insieme.

Il vostro programma riunisce le vette del repertorio americano del ‘900 a cavallo tra classica e jazz. Esiste un filo conduttore che collega l’uno all’altro questi grandi compositori?
Lo scopo di questo programma è accompagnare l'ascoltatore in un viaggio musicale negli Stati Uniti d'America del Secolo scorso, offrendogli una panoramica dei linguaggi e degli stili che hanno caratterizzato quella geografia e quel tempo. Per questo abbiamo scelto un'antologia di compositori e generi quanto più variegata e interessante possibile.

Negli ultimi anni il quartetto di sassofoni ha conosciuto un’enorme crescita, divenendo sempre più protagonista di moltissime stagioni concertistiche, con una duttilità di repertorio che supera addirittura quella di un ensemble di archi. Cosa lo rende così flessibile e adatto a valorizzare sia la musica barocca che quella dei nostri giorni? Il sassofono è uno strumento pensato appositamente per competere in agilità con un violino e al contempo vantare una potenza sonora analoga a quella degli ottoni; senza dimenticare la grande tavolozza di colori e sfumature espressive di cui è dotato, grazie dalla flessibilità dello strumento in sé e al copioso numero di tagli che costituiscono l'intera famiglia. Queste caratteristiche fanno sì che il quartetto (la formazione cameristica di soli sassofoni per eccellenza) si possa prestare alle situazioni più disparate, dalla musica barocca al rock.

Alma likes to be in America: si può tradurre con “Ad Alma piace essere in America”. Parlando al futuro: dove sarà Alma nella sua prossima esplorazione musicale?
Per quest'estate abbiamo già in agenda quasi una ventina di concerti in tutta Italia con Alma likes to be in America e contiamo di poter esportare questo programma ancora più lontano e a lungo. Nel frattempo abbiamo però già registrato il secondo disco, di cui siamo assai orgogliosi ed entusiasti, poiché realizzato in collaborazione con il grandissimo sassofonista e compositore italo-argentino Javier Girotto. Il disco, che uscirà molto probabilmente in autunno, è una raccolta di composizioni di Girotto: da riadattamenti di suoi celebri pezzi a brani inediti scritti appositamente per quartetto di sassofoni. Si tratta un programma ricercato, affascinante e coinvolgente, e noi non vediamo l'ora di farlo conoscere a tutto il mondo!

13.07.2022

La frottola e la sensibilità del primo Rinascimento

Intervista a Fabio Antonio Falcone

di Alessandra Aitini

Sabato 16 luglio alle ore 18.30, nella Chiesa di San Giorgio a Origlio, si esibirà “L’Amorosa Caccia”, ensemble per l’occasione composto da Fabio Antonio Falcone (tastiere antiche) e Tìmea Nagy (cornetti e flauti dolci). L’ensemble, specializzato nel repertorio di frottole del primo Cinquecento italiano, darà al pubblico presente l’opportunità di compiere un’ideale passeggiata sonora attraverso le corti rinascimentali dell’Italia settentrionale. Ci introduce a questo viaggio nella storia della musica lo stesso Fabio Antonio Falcone.

L’Amorosa Caccia: oltre ad essere il titolo di una raccolta di madrigali è prima di tutto un ossimoro. Come e dove si ritrova questo senso di “contrasto” nel repertorio che interpretate?
A dire la verità, io e Timea Nagy, con la quale abbiamo fondato questo ensemble a Ginevra alcuni anni fa, abbiamo scelto questo nome non pensando all’ossimoro, ma all’omonima raccolta di madrigali, in quanto identifica il repertorio su cui abbiamo iniziato a confrontarci ed a lavorare alla ricerca di un’estetica propria del nostro gruppo. Quella dell’amore-cacciatore è una figura retorica molto radicata nell’idea stessa dell’amore – ed in particolar modo della concezione dell’amore propria della cultura quattrocentesca - dunque il fatto di adottare un “ossimoro” come denominazione che ci identificasse non ci ha meravigliati, né ci abbiamo fatto molto caso. Dovendo riflettere su questa dicotomia, possiamo dire che è presente in due maniere nel repertorio che facciamo: innanzitutto da un punto di vista testuale, in quanto troviamo spesso il luogo comune dell’amore come caccia, come sentimento non corrisposto e percorso iniziatico che genera sofferenze, una sorta di espiazione della condizione umana. Da un punto di vista musicale riconosciamo invece la dicotomia nel contrasto tra il testo – spesso appunto malinconico – ed il carattere ritmico e melodico della partitura, non di rado molto legato alla danza, con scelta di ritmi ternari e la presenza anche di una certa ironia. Dunque abbiamo una struttura musicale dal piglio energico sovrapposta ad un testo che parla di dolore. Pur non essendoci focalizzati su questo ossimoro, nella versione strumentale dei brani che proponiamo abbiamo spontaneamente cercato di sottolinearlo con la scelta della strumentazione, preferendo ad esempio un cornetto muto ad un flauto piccolo, per suggerire al meglio la dolcezza della voce.

Il programma previsto inizialmente prevedeva la partecipazione di una voce sopranile. Rimangono elementi “vocali” riconoscibili anche nel repertorio esclusivamente strumentale che eseguirete?
Sicuramente qui entra in gioco l’aspetto della scelta dei timbri, ma c’è in realtà un elemento ancora più connaturato nella scrittura musicale. Il repertorio frottolistico del primo ‘500 si basa su un’interdipendenza strettissima tra testo e musica: questo ha portato ad una scrittura musicale quasi standardizzata, che permetteva di sovrapporre testi diversi sulle medesime strutture melodiche. Il verso – che sia dunque ad esempio settenario o endecasillabo – viene dotato di una veste musicale che già in sé ricorda la cadenza ritmica della parola e della declamazione di essa. A noi strumentisti spetta il compito di mettere in valore questa declamazione attraverso i nostri strumenti ; se immaginiamo, mentre suoniamo, di pronunciare il verso “Hor che ‘l ciel e la terra e ’l vento tace” o “Zefiro spira e il bel tempo rimena”, sebbene le due frottole siano costruite su una linea melodica molto simile, il risultato musicale è diverso, perché l’accentuazione cambia da un testo all’altro. Questo è reso possibile dalla scelta delle articolazioni, dal fraseggio o anche dalla scelta di un tempo particolare. Per riconoscere queste differenze naturalmente c’è bisogno di un ascoltatore attento, che conosca i brani, cosa che per altro nel Rinascimento rappresentava la consuetudine. Ora viviamo in tutt’altra epoca ed è chiaro che il pubblico contemporaneo generalmente non abbia familiarità con i testi in questione, ma trovo che il nostro sforzo di restituire un’articolazione del verso poetico nella struttura musicale caratterizzi ogni brano a livello ritmico e lasci un un’ombra, un colore di quella che è la sua vocalità “nascosta”. Per tutta la musica del ‘500 e del ‘600 il punto di riferimento è la voce, pertanto, dal nostro punto di vista, anche se presentiamo una versione esclusivamente strumentale, è impossibile non tenere conto delle implicazioni “vocali”. Del resto in tutti i trattati dell’epoca si parla di “imitare la parola”.

Ci può indicare, all’interno del programma, uno o più autori a cui è particolarmente legato e raccontarci il motivo?
Di pancia mi verrebbe da dire Bartolomeo Tromboncino, perché è il primo che abbiamo scoperto con Tìmea e che ci ha avvicinato a questo linguaggio. Potrei citare anche Marchetto Cara, ma in realtà non abbiamo un compositore “preferito” all’interno di questo repertorio: è proprio il genere frottola al quale siamo veramente molto molto legati come ensemble, perché entrambi, sia io che Timea, amiamo questa fase del Rinascimento italiano. Io ad esempio sono un fan sfegatato di Mantova, di Ferrara e di quelle città in cui c’è ancora una viva testimonianza del Rinascimento. In più abbiamo la fortuna di essere musicisti, elemento che ritengo ci avvicini a cogliere la sensibilità musicale e artistica di quel periodo, per quanto la musica stessa sia sottoposta a dei parametri di ricezione che oggi sono completamente diversi da quelli di allora. Noi cerchiamo di avvicinarvici sulla base delle fonti storiche: non abbiamo la certezza di riprodurre la musica rinascimentale in maniera al 100% aderente a come facevano 500 anni fa, ma il genere della frottola funge da veicolo per entrare in un’altra dimensione del sentire la musica, forse indefinibile, ma di grande potere evocativo, tale da farci sentire comunque prossimi a quella cultura, a quell’estetica e a quella gente.

Qual è a suo avviso il ruolo della musica rinascimentale al giorno d’oggi?
Oggi c’è un po’ un’esplosione, una riscoperta della musica rinascimentale e della musica antica in generale, a ritroso verso il Medio Evo. Ci sono sempre più ensemble che si specializzano in un repertorio legato ad una regione europea specifica o ad un periodo storico molto preciso, facendo, a mio parere, un ottimo lavoro. Trovo che la musica rinascimentale, come anche quella barocca, si presti particolarmente a fare da “amo” verso il pubblico non esperto in quanto cela una grande influenza popolare, la quale rappresenta l’aspetto più esteriore e facilmente recepibile di questa musica (ritmi ternari di danza, apparente semplicità della frase melodica). Dunque la musica rinascimentale ha una grande potenzialità: avvicinare l’ascoltatore ad un repertorio colto. E noi musicisti, di conseguenza, abbiamo la grande responsabilità di portare il pubblico oltre questo primo approccio di ascolto, verso una fruizione più consapevole e informata, verso un ascolto esperto.

01.07.2022

"Ciò che piace" al Trio Quodlibet

Intervista a Virginia Luca

di Alessandra Aitini

Domenica 3 luglio alle ore 19.00, nella Chiesa di Santa Maria Assunta a Sorengo, Ceresio Estate ospita il Trio Quodlibet, formazione di soli strumenti ad arco composta dai giovani, ma già esperti, Vittorio Sebeglia al violino, Virginia Luca alla viola e Fabio Fausone al violoncello. In programma musiche di Schubert, Penderecki e Beethoven. Ci avviciniamo al concerto attraverso un’interessante chiacchierata con Virginia Luca.

Trio Quodlibet: da dove la scelta di questo nome?
Le ragioni che hanno guidato la scelta sono molto precise. Il Quodlibet è l’ultima delle “Variazioni Goldberg” di J. S. Bach ed è il primo brano che abbiamo affrontato insieme nel corso dei nostri studi presso il Conservatorio della Svizzera italiana. In secondo luogo ci ritroviamo nel significato democratico di questa formula, in quanto tra noi non c’è un leader che spicca sugli altri. Infine, il significato etimologico: “quod libet” significa “ciò che piace” e suonare è la nostra più grande passione, oltre ad essere diventata la nostra professione.

La formazione cameristica “perfetta” per antonomasia è il quartetto d’archi, mentre il Trio composto da violino viola e violoncello poggia su altri equilibri. Quali sono per voi i punti di fascino e di forza di questo organico?
Ognuno di noi deve essere parallelamente sia solista che componente armonica e saper cambiare ruolo nel giro di pochissime battute. Il fascino del lavoro in trio sta nel riuscire a costituire un suono di insieme ed allo stesso tempo lasciar vivere e brillare il suono di ognuno. All’ascoltatore sarà affidata la scelta di come percepire il suono dell’ensemble. E poi diciamolo: 3 è il numero perfetto!

Come si inserisce Penderecki, nel vostro programma, tra Beethoven e Schubert?
Onestamente? Si inserisce come una piccola sfida tra noi e il pubblico! Mi spiego meglio. La nostra idea era quella di proporre, accanto due classici, un compositore dei nostri giorni. Abbiamo voluto omaggiare Krzystof Penderecki, mancato di recente, in quanto reputiamo che la sua musica sia al giorno d’oggi ancora troppo poco eseguita. Davanti agli autori contemporanei molti storcono il naso, ma non si può fare di tutta l’erba un fascio! Crediamo che per il pubblico il Trio di Penderecki sarà l’occasione per scoprire un vero e proprio linguaggio e siamo sicuri che affascinerà e convincerà molti scettici!

Il vostro Trio è attivo in diversi ambiti, tra concerti, concorsi, registrazioni e progetti di vario genere. Tra tutte queste esperienze, c’è un filo conduttore che vi ha portati ad essere quello che siete oggi?
Assolutamente sì: fare ciò che ci è sempre piaciuto senza mai scoraggiarci e puntare sempre all’obiettivo prefissato. Nell’ultimo anno abbiamo dovuto affrontare un cambio di violinista ed anche questo “passaggio” si è svolto secondo questa filosofia. Abbiamo la fortuna di fare un lavoro bellissimo, che ci appassiona e che ci diverte. Lo stare bene insieme ed il poter scegliere cosa fare o non fare e come farlo è un privilegio che cerchiamo di non sottovalutare mai!

25.06.2022

Alla scoperta di clarinetti insoliti

Intervista a Fausto Saredi

di Alessandra Aitini

Martedì 28 giugno alle ore 20.30, nella Chiesa di Sant’Abbondio a Gentilino, il pubblico di Ceresio Estate avrà l’opportunità di conoscere due strumenti di non comune ascolto: il clarinetto basso ed il corno di bassetto, cui darà voce e anima Fausto Saredi, clarinetto basso dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Saredi - che si esibirà accompagnato dal quintetto d’archi composto da Barbara Kruger e Jacopo Bigi al violino, Nicola Sangaletti alla viola, Claudio Giacomazzi al violoncello e Kastriot Mersini al contrabbasso – ci svela alcuni segreti dei suoi strumenti.

Ci può illustrare quali sono le principali caratteristiche dei due strumenti protagonisti di questo programma, il clarinetto basso ed il corno di bassetto?

I due strumenti fanno parte della variopinta famiglia del clarinetto, la quale, se paragonata a quella degli archi, vedrebbe il corno di bassetto come corrispettivo della viola (la voce di contralto) e il clarinetto basso come alter-ego del violoncello (il tenore). Il clarinetto basso ha ovviamente un'estensione maggiore verso il grave e ne risulta, per la grandezza della sua cameratura cilindrica, un suono molto più scuro e morbido rispetto al corno di bassetto, più acuto e leggermente più nasale. Quest'ultimo, tra i due, risulta più femmineo e delicato, mentre il clarinetto basso ha un carattere più maschile e tenorile.

Quale dei due sente più affine alla sua sensibilità e perché?
Entrambi sono due strumenti che adoro per le loro caratteristiche e peculiarità. Ho potuto eseguire brani di repertorio solistico, cameristico e orchestrale con tutti e due, ma sento il clarinetto basso più vicino alla mia sensibilità, forse perché è anche lo strumento per cui occupo il posto all'Orchestra Sinfonica di Milano e con cui ho potuto esplorare tutto il repertorio sinfonico importante per questo strumento. Trovo sia affascinante per le mille sfumature che il suo suono può dare e che vengono richieste dai diversi autori che gli hanno dedicato dei soli orchestrali, soli che rappresentano in maniera esplicita alcune situazioni musicali: ad esempio, la bonarietà di Sancho Panza in Don Chisciotte di Strauss, o la provocazione della Sagra della Primavera di Stravinsky, il dolore di Tristano nell’omonima opera di Wagner e la malinconia della Settima Sinfonia di Schostakovich.

Il programma vede l’alternanza di brani classici e brani contemporanei. C’è un criterio che vi ha guidati nell’accostamento?
Il programma del concerto è un insieme di brani classici e moderni, tuttavia molto più vicini tra loro di quanto si pensi. Abbiamo diversi denominatori comuni che li legano: i due strumenti a fiato della stessa famiglia, il camerismo di tutti i brani, ovunque  melodie di una liricità estrema. Lasciatemi però spendere alcune parole sul brano per clarinetto basso solo di Dario Bortolato, un vero esempio di musica descrittiva: come si può rappresentare una passeggiata con il clarinetto basso? Lo scoprirete al concerto...e sarà molto divertente!

Il corno di bassetto ha avuto una stagione d’oro a cavallo tra il ‘700 e l’800. Qual è a suo avviso il suo ruolo nel panorama strumentale e musicale odierno?
È vero! Il corno di bassetto tra il '700 e l'800 raggiunse vette altissime, grazie a Mozart (era anche il simbolo della sua loggia massonica!) con il Requiem, la Clemenza di Tito ed altre composizioni. Anche Alessandro Rolla, Girolamo Salieri e Backofen gli dedicarono musica da camera e pezzi solistici. Poi tutti, o quasi, se ne dimenticarono, probabilmente i solisti non incontrarono i compositori giusti e l'alchimia si spezzò. Richard Strauss se ne interessò in maniera evidente più tardi, poi Stockhausen e pochi altri. Manca dunque un repertorio del periodo romantico e di inizio '900, cosa che lo rese assente dalle sale da concerto. Ora c'è un discreto interesse nei suoi riguardi, molti compositori contemporanei gli hanno dedicato dei lavori, vedremo il futuro cosa riserverà a questo strumento dotato di un suono molto espressivo e morbido.

17.06.2022

Il flauto del pastore Krsna suonato dal Bansuri Ensemble

Intervista a Luca Russo

di Alessandra Aitini

Giovedì 23 giugno alle ore 19.00 a Montagnola Ceresio Estate propone, nella piazzetta prospicente il Museo Hermann Hesse, un concerto dedicato alla musica classica indiana, a 100 anni dalla pubblicazione di “Siddhartha”, proprio a pochi metri da dove il romanzo fu scritto. Ci introduce all’evento Luca Russo, flautista comasco e colonna portante del Bansuri Ensemble Italiano.

Quali sono le principali caratteristiche del flauto Bansuri?
Il bansuri è un flauto di bambù. Viene costruito senza aggiungere nulla, nessuna chiave, nessuna meccanica, semplicemente togliendo ciò che serve per creare i fori, che sono solo sei, oltre a quello dell’imboccatura. Solo sei fori per produrre un ventaglio infinito di sfumature, grazie ad una tecnica delle dita che richiede grande precisione e flessibilità. È lo strumento del pastore divino Krsna, il fanciullo azzurro, figura principale di testi sacri come il Mahabharata ed il Gitagovinda.

Nella musica occidentale si parla di maestri e allievi, mentre nella musica indiana questi ultimi vengono chiamati “discepoli”. Qual è la differenza di impostazione nei due tipi di relazione tra docente e discente?
La musica indiana veniva (ed in parte viene ancora) tramandata oralmente. In questo modo il rapporto tra maestro e allievo assume un’importanza enorme. Non si possono infatti scrivere le sfumature di un suono, o quelle di un suono che si combina con un altro e così via nelle loro infinite forme, se non mutilandone fortemente il contenuto. Il maestro può invece consegnare direttamente all’allievo tutto il suo sapere, un procedimento lungo e profondo, che viene chiamato “guru-shishya parampara” (letteralmente “linea maestro-allievo”), che va così a formare una tradizione. Il concetto di tradizione maestro-allievo, pur con le dovute differenze, non era affatto estraneo alla nostra cultura occidentale fino a qualche decennio fa, ma si è andato malamente sfaldando nella globalizzazione.

Nelle vostre performance salta subito all’occhio il fatto che vi esibite da seduti. Come contribuisce questo elemento corporeo e posturale alla resa musicale e concettuale delle vostre esecuzioni?In India si fanno molte cose stando seduti in terra, non solo le posizioni yoga, ma anche ad esempio mangiare o molti mestieri. Questo in effetti cambia la postura ed influisce sulle energie psicofisiche. Anche la concezione musicale indiana differisce molto da quella occidentale. È composta da due aspetti formali principali: il Raga e il Tala. Il Raga è un’entità musicale dotata di qualità proprie, come un suo sentimento, un suo colore e addirittura un’ora del giorno in cui è più auspicabile la sua esecuzione. Il Tala è uno spazio che potremmo definire circolare, dove il ritmo si scompone e ricompone definendo una sorta di racconto che si sviluppa nel tempo.

Qual è il ruolo, al giorno d’oggi, della musica indiana nel contesto occidentale? E quali sono le reazioni del pubblico occidentale di fronte alla scoperta di questo mondo spesso “nuovo” alle sue orecchie?
La musica indiana è filtrata in occidente a ondate successive. Una delle ultime ha coinciso con l’interesse per l’Oriente, ed in particolare per l’India, che ha dilagato America ed in Europa negli anni Sessanta e Settanta, grazie all’attenzione ricevuta dalle correnti giovanili e culturali dell’epoca. Della musica indiana ad un orecchio occidentale spiccano la fissità armonica, alla quale si contrappone una grande varietà ritmico-melodica, e la peculiare tavolozza timbrica.

03.09.2021

Finale ritrovato con i Modulata Carmina

Intervista a Luigi Santos

 

di Alessandra Aitini

Sabato 4 settembre alle ore 20.30 Ceresio Estate cala il sipario sulla sua 45esima edizione con l’evento “O vos Omnes”: protagonista, l’ensemble vocale Modulata Carmina, coordinato da Luigi Santos. È lo stesso Santos ad introdurci all’evento, svelandoci alcuni interessanti particolari del “dietro le quinte” del lavoro corale.

Come è nato e come si è evoluto, nel corso degli anni e della sua storia, l’ensemble “Modulata Carmina”?
È nato – parliamo di circa 30 anni fa – come quartetto e con questa formazione per diversi anni ha tenuto diversi concerti, approfondito il proprio interesse nei confronti della musica antica e, tra le altre cose, partecipato alla Scuola di Musica Antica di Ginevra. Insomma, il percorso di Modulata Carmina ha avuto proprio una bella partenza! Il suo sviluppo è stato guidato principalmente da esigenze musicali che hanno richiesto man mano organici a 5 e 6 voci, poi sempre maggiori fino ad arrivare – cosa che abbiamo realizzato proprio per Ceresio Estate – ad eseguire brani a 24 voci!

È possibile individuare, nel programma che presenterete a Ceresio Estate, uno o più fil rouge?
Il leitmotiv di “O vos omnes” verte sul fatto che tutti i brani che compongono il programma hanno, come concetto di fondo, un’aspirazione all’amore inteso come sentimento spirituale, veicolo per il raggiungimento di vette altissime. E questa aspirazione coinvolge tutti quanti: da qui il titolo “O vos omnes”. Ritroviamo una tensione ad un amore altissimo sia nei “Madrigali spirituali” di Giovanni Pelio, sia nel “Magnificat” di Antonio Mortaro. Nei madrigali a voce sola la dimensione dell’amore è presente secondo una prospettiva più sensuale e terrena, mentre in altre composizioni l’amore ritorna come sentimento chiave verso il raggiungimento della pace interiore. Dunque il fil rouge principale del nostro programma, riassumendo, è la parola amore, declinata secondo significati di interiorità, spiritualità, elevazione. Sulla base di questo principio fondante abbiamo assemblato il programma cercando di mantenere al suo interno una varietà ed un’alternanza di stili che lo rendano sempre coinvolgente per l’ascoltatore.

Alcuni dei brani in programma verranno da voi cantati in prima esecuzione in tempi moderni: cosa si prova a riportare alla luce, alla conoscenza del pubblico ed al “cuore” delle persone gioielli musicali e culturali del passato?
Personalmente, essendo di mia competenza la ricerca e la trascrizione di molti brani che facciamo “riemergere” dall’oblio, provo sempre un’emozione speciale. Ma la partecipazione emotiva a questi momenti non è minore nei cantori. È come riscoprire una poesia dimenticata ingiustamente per anni in un cassetto: ridarle vita è qualcosa di magico. Non si tratta di una semplice operazione di “restauro”, come accade ad esempio per un monumento od un oggetto artistico: nella musica c’è un aspetto di vitalità legato al momento dell’esecuzione, che lo rende unico e per questo motivo di grande gioia ed emozione.

Mottetti, monodie gregoriane, madrigali, salmi, cantici: ci sono degli elementi di tecnica vocale specifici per ognuna di queste forme musicali, che anche un pubblico di non addetti ai lavori potrebbe riconoscere e apprezzare?
Sicuramente una differenza macroscopica, che anche un pubblico non “tecnico” può riconoscere, sta nel diverso modo di cantare in base all’organico: se ad esempio abbiamo un canto gregoriano o un madrigale a voce sola, il cantore sarà molto più libero nell’espressione e nella gestione del tempo musicale. Nei brani di insieme - come i mottetti o i madrigali a più voci - al cantore è richiesta maggiore sensibilità rispetto al “fare musica insieme” e dunque un maggiore rigore. Il canto a voce sola richiede una tecnica più raffinata e concede una più grande libertà, cosa che, per quanto riguarda i contenuti, va di pari passo con un più ampio margine nell’espressione del sentimento umano; nei brani a più voci prevale invece tendenzialmente l’aspetto della narrazione.

19.08.2021

"Invocazioni"
di Eva Wymola

Intervista a Eva Wymola

 

di Alessandra Aitini

Domenica 22 agosto alle ore 18.00, presso la Chiesa Evangelica Riformata di Lugano, Ceresio Estate presenta un concerto molto particolare: “Invocazioni / Beschwörungen”, che vedrà in scena un particolare e raffinatissimo trio, composto da voce, arpa ed organo, con la presenza del mezzosoprano Eva Wymola – apprezzatissima artista e docente di arte scenica al Conservatorio della Svizzera Italiana, dell’arpista Elisa Netzer e dell’organista Andrea Pedrazzini. È la stessa Eva Wymola ad introdurci al concerto.

Quali sono stati i passi che hanno condotto all’elaborazione del peculiare programma di “Invocazioni”, che spazia dal barocco al Novecento proponendo fra gli altri brani di rarissimo ascolto?
Il programma è stato concepito tenendo in grande considerazione il luogo che ospiterà il concerto: la Chiesa Evangelica Riformata di Lugano, con la sua storia, il suo carattere di spiritualità legato alla tradizione protestante e naturalmente il suo organo, che ha suggerito l’introduzione di brani di Johann Sebastian Bach, Henry Purcell e Georg Friedrich Händel. L’idea di inserire i Canti biblici di Antonìn Dvořàk è sorta spontaneamente sulla base di un episodio da me vissuto in passato, ai tempi in cui insegnavo presso la Hochschule für Musik und Theater di Monaco di Baviera. In occasione del concerto per l’inaugurazione del nuovo organo, il professore di questo strumento aveva fatto degli arrangiamenti degli stessi Canti biblici - pressoché sconosciuti nell’Europa centro-occidentale – per voce, arpa e organo. Questa formazione restituisce l’impressione sonora di trovarsi di fronte ad un’orchestra, ma con un colore completamente diverso. Sulla base di quell’esperienza ho pensato che proporre questi brani con questa formazione per Ceresio Estate, ed in particolare nella Chiesa Evangelica di Lugano, sarebbe stata una bellissima cosa.

Qual è il suo rapporto con la musica di Antonìn Dvořàk e più in generale con il repertorio della sua terra, la Repubblica Ceca?
La musica ceca è quella con cui sono nata e cresciuta. Mio padre era violinista e ricopriva il ruolo di spalla presso l’Orchestra del Teatro di Praga. Dunque io ero sempre in teatro, nel luogo dove si cantava, dove la musica vocale trova il suo spazio per eccellenza. Oltre a Dvořàk, naturalmente ho coltivato la musica di altri autori cechi come Leoš Janáček e Bohuslav Martinu. Quando a 22 anni sono entrata a far parte come solista del Teatro dell’Opera di Brno “Leoš Janáček”, ho avuto l’opportunità di eseguire in prima mondiale postuma l’opera di Martinu “Tre desideri”, composta nel 1925, impersonando uno dei ruoli principali. Un’altra esperienza significativa è rappresentata dal Festival di Musica contemporanea di Brno, dove in diverse occasioni ho cantato brani scritti appositamente per me da compositori cechi.

Lei conosce con padronanza molte lingue europee. Che ruolo riveste la lingua – parlata e cantata – nel suo essere artista e, nello specifico, cantante?
L’epoca in cui sono cresciuta è stata caratterizzata dalla presenza del socialismo: questo ha fatto sì che io abbia imparato il russo, cosa per cui sono molto grata, perché ciò mi ha permesso non solo di parlare in russo, ma anche di poter cantare in russo senza alcuna difficoltà. Canto ovviamente anche in tedesco, italiano, francese, ceco, inglese…e trovo che l’essere internazionali e lavorare con le lingue sia un aspetto molto bello del nostro mestiere. Conoscere una lingua straniera significa aprirsi ad una mentalità, andare incontro alle persone che hanno quell’idioma come propria lingua madre. Lo studio del Lied è un vero e proprio viaggio alla scoperta di una mentalità.

La sua attività, sia artistica che didattica, si realizza in parte attraverso la collaborazione con giovani artisti o musicisti in corso di formazione. Cosa significa per lei questa dimensione del suo lavoro?
Il lavoro con i giovani significa tantissimo per me. Con loro ho sempre modo di instaurare un bellissimo rapporto e ad ottobre, quando si avvicina il nuovo inizio di un anno accademico, sono sempre impaziente di ricominciare con una nuova sessione de “L’arte di presentarsi”, il mio seminario presso il Conservatorio della Svizzera italiana. Insegnare a vivere il palcoscenico porta a compiere scoperte individuali ed artistiche sorprendenti. Al termine di ogni sessione del seminario proponiamo uno spettacolo aperto al pubblico, che confido sia di spunto e stimolo per altri giovani musicisti o anche per i più piccoli spettatori che vengono ad assistere. Tengo a sottolineare che oltre ad avere piacere a lavorare con giovani talenti che spesso ritrovo in seguito instradati lungo una brillante carriera, sono felice di poter lavorare con persone di tutte le età: la cultura vive sia sul palcoscenico, sia in gran parte nei singoli individui, all’interno delle famiglie e nelle scuole. Lavoro ad esempio con molti insegnanti che vogliono approfondire il rapporto con la propria voce. E ogni volta sono felice se posso lasciare loro qualcosa.

12.08.2021

Un fortepiano da New Orleans 

Intervista a Bobby Mitchell

di Alessandra Aitini

Lunedì 16 agosto alle ore 20.30 la Chiesa parrocchiale di Gentilino farà da palcoscenico ad un nuovo concerto di Ceresio Estate 2021: protagonista, Bobby Mitchell, brillante solista nativo di New Orleans capace di spaziare dalla musica contemporanea all’improvvisazione, al grande repertorio pianistico, spesso eseguito su strumenti d’epoca. Co-protagonista, proprio uno strumento d’epoca di non comune ascolto: il fortepiano. In programma, capolavori di Franz Joseph Haydn e Ludwig van Beethoven. È lo stesso Bobby Mitchell ad introdurci al concerto, raccontandosi in una piacevole chiacchierata.

Le tue origini americane si pongono in netto “contrasto” con il filone della musica classica che hai scelto di approfondire, radicato, con Haydn e Beethoven, nel cuore della vecchia Europa. Come vivi in te questo binomio?
Sono nato a New Orleans, quindi era chiaro fin dall’inizio che sarei diventato un musicista! Scherzi a parte, nel momento in cui, ormai teenager, mi sono appassionato alla musica classica, ho capito che il mio interesse si estendeva anche alla storia, alla cultura e persino alla geografia europea. In America molti di noi sono da un lato fissati con la cultura europea, mentre dall’altro lato ne abbiamo una visione differente sulla base di quel melting pot che è la società americana. Ho scelto di venire in Europa per studiare musica classica proprio per evitare di imparare la tradizione culturale dell’Europa “dalle lontane colonie”. Il periodo trascorso nel vecchio continente (ad oggi 15 anni) ha formato in maniera significativa il mio modo di fare musica. È come se avessi acquisito la tradizione classica europea da adulto, tuttavia in qualche modo voglio che il mio fare musica abbia quel certo non so che di New Orleans…!

Il programma che eseguirai a Ceresio Estate è più spesso oggetto di ascolto attraverso il pianoforte. Cosa dà in più o di diverso il fortepiano a queste opere?
Io amo il pianoforte moderno. È uno strumento robusto e decisamente resiliente. Ma la musica che suonerò a Ceresio Estate è stata concepita su uno strumento completamente differente. Un fortepiano viennese a 5 ottave ha molte meno corde, non ha alcuna parte in acciaio e porta l’ascoltatore in un proprio speciale mondo sonoro. Ascoltare Haydn e Beethoven su un fortepiano non è soltanto quello che facevano gli stessi Haydn e Beethoven: introduce l’ascoltatore moderno in un peculiare panorama sonoro dove il forte e il piano hanno significati differenti. Su un fortepiano il forte e il piano sono raggiunti attraverso la dinamica, ma anche attraverso il rubato e l’ornamentazione.

Ci sono a tuo avviso dei legami “nascosti” tra Haydn e Beethoven?
Questa è una domanda interessante. Haydn e Beethoven si sono sicuramente incontrati ed hanno lavorato insieme, ma Haydn era piuttosto anziano e probabilmente anche stanco in quel periodo. Mentre Beethoven era giovane – parliamo di una decina d’anni prima che lui scrivesse i suoi primi “lavori giovanili” di sostanza. In realtà vedo questi due compositori come due universi differenti. E sebbene io personalmente non abbia niente contro Beethoven, preferirei sicuramente prendere un drink con Haydn! La musica di Haydn mi parla come quella di pochi altri compositori: è costantemente arguta, mai noiosa e ti chiede di aggiungere qualcosa di tuo, di metterci un po’ di pepe, un tocco jazz. Beethoven è il compositore sempre attuale, le sue opere possiedono un’intrinseca importanza, come se lo stesso Beethoven avesse chiesto – a livello postumo - al pubblico futuro di considerarlo molto seriamente e di assicurare la sua reputazione quale pietra angolare della musica europea.

Il tuo concerto a Gentilino era già in programma per il 2020, poi è stato forzatamente rimandato causa Covid. Come è cambiato il tuo essere musicista nel corso della pandemia, con tutto ciò che essa ha determinato?
Il lockdown del 2020/21 è stato un periodo molto produttivo per me dal punto di vista creativo. Ho composto vari pezzi, lavorato duro perfezionando il mio pianismo relativamente alla musica di Schumann e fatto un certo numero di registrazioni video. Questo periodo mi ha dato l’opportunità di affinare alcuni aspetti del mio essere musicista e di sperimentare altri modi di fare musica cui sono meno avvezzo (per esempio, la composizione). Naturalmente ora sono molto contento di poter viaggiare e suonare di nuovo dal vivo. Quale sarebbe stato il significato di aver lavorato così duramente sulla musica, a casa, se non avessi ora la possibilità di esibirmi in pubblico? È anche molto più interessante dal punto di vista sociale e finanziario…!

05.08.2021

A partire dalla "Comedìa"

Intervista a Domenico Baronio - La Rossignol

di Alessandra Aitini

Sabato 7 agosto alle ore 20.30 a Morcote  Ceresio Estate presenta “L’amor che move il sole e l’altre stelle – Hommage an Dante Alighieri” spettacolo a cura dell’ensemble “La Rossignol”, che a settecento anni dalla morte del Sommo Poeta lo ricorda con musiche e danze medievali e rinascimentali. Ci introduce all'evento il liutista Domenico Baronio, direttore dell'ensemble.

Il vostro è uno spettacolo a tutto tondo, con musica, danza e poesia. Come avviene la costruzione di un evento di questo genere?
L'epoca in cui è vissuto Dante non prevedeva, come nel nostro tempo e a quanto ci è dato di sapere, delle separazioni nette tra le arti. Ci sono pervenute poesie, musiche, canti e danze, per cui ci è parso naturale costruire un evento che utilizzasse quanto utile per rendere omaggio al Sommo Poeta.


Il programma che eseguirete a Ceresio Estate si delinea secondo precisi versi della Divina Commedia. Ci può raccontare come si legano questi estratti ai brani musicali da voi scelti?
È  certo che Dante conoscesse perfettamente la musica e la danza del suo tempo, sia perché esse erano inserite nel percorso formativo del quadrivium, sia perché nella sua opera troviamo molti termini specifici e gli strumenti musicali sono richiamati con precisione e coerenza. La ricerca è partita proprio da qui, dal testo della “Comedìa”: riempirla di contenuti coerenti, potendo contare su una lunga esperienza nel campo della ricerca e della esecuzione di musica e danza antica, è stato relativamente facile.

L’organico de “La Rossignol” prevede tra gli altri, viella, cornamusa, ghironda e chitarra latina…nomi che ai non addetti lavori forse potrebbero suonare “strani”. Quale vita hanno, oggi, questi strumenti antichi?
Sono strumenti in uso nel tempo di Dante, alcuni anche citati nelle sue opere, forse fatta eccezione della ghironda, apparsa qualche tempo dopo in sostituzione della medioevale sinphonia. Oggi, fatti salvi alcuni “esperimenti” contemporanei, molti di essi, come la ghironda e la cornamusa, hanno trovato una collocazione importante nella tradizione orale, ma nel campo della musica colta essi vengono utilizzati soprattutto nel repertorio antico. 

Qual era il ruolo sociale del musicista al tempo di Dante e come si articolava la sua attività?
Dante, secondo il Boccaccio, "sommamente si dilettò in suoni e canti nella sua giovinezza, (…) ed assai cose compose le quali di piacevole e maestrevole nota facea rivestire". Purtroppo, dal suo tempo nessun documento musicale a Lui attribuito o da Lui commissionato ci è pervenuto; tuttavia, attorno a lui, nelle chiese e nelle dimore, risuonava un ampio e variopinto repertorio di canti e danze, prodotte anche da compositori che il Poeta conobbe e frequentò. Non abbiamo molte informazioni sul ruolo sociale del musicista, se non che, soprattutto tra i trovatori e i trovieri, appartenevano alla nobiltà e al clero. Il primo musicista ad essere retribuito per la sua opera, a quanto ci risulta, fu il fiorentino Francesco Landini, ma ciò accadde dopo la metà del XIV secolo, ovvero dopo la scomparsa di Dante.

 


02.08.2021

Le meraviglie del sassofono

Intervista con Alessia Berra - Elise Hall Saxophone Quartet

di Alessandra Aitini

La serie di eventi sotto le stelle di Ceresio Estate continua domani, martedì 3 agosto, al Parco Scherrer di Morcote, con il concerto dell'Elisa Hall Saxophone Quartet, ensemble italiano che ormai da una dozzina d'anno si dedica con passione alla diffusione del nuovo repertorio per sassofono e lavora in stratta collaborazione con compositori come Michael Nyman. Ci racconta di questa formazione, introducendoci al concerto, in qualità di portavoce del gruppo, la sassofonista Alessia Berra.
Il vostro ensemble è intitolato ad Elise Hall, pionieristica figura di sassofonista di fine ‘800/inizio ‘900. In che misura è di ispirazione la sua storia nella vostra attività e nel vostro essere musiciste?
Abbiamo voluto omaggiare l'importante figura di Elise Hall perché, oltre a essere una delle prime saxofoniste donne, la consideriamo un'artista chiave per la storia del nostro strumento. Nata a Parigi nel 1853, da una famiglia americana, Elise Hall inizia a suonare il saxofono in età adulta come terapia per contrastare la sua progressiva sordità causata da una febbre da tifo: da quel momento in poi, la musica diventa parte integrante della sua vita e la sua dedizione per lo strumento la porta a influenzare in modo significativo il panorama musicale dell'epoca. Grazie a lei, il repertorio solistico per saxofono classico, fino a quel momento non particolarmente ampio e variegato, si è arricchito di brani originali, da lei commissionati o a lei dedicati, scritti da illustri compositori francesi tra cui Claude Debussy, Florent Schmitt, Andrè Caplet. Con il nostro quartetto al femminile, in modo analogo, desideriamo dare seguito al lavoro di Elise Hall: dal 2006, infatti, la nostra formazione è animata dalla volontà di diffondere e arricchire le pagine musicali per quartetto di saxofoni, collaborando con compositori attivi nel panorama internazionale.

Il programma del concerto per Ceresio Estate prevede una serie di brani di musica classica reinterpretati da Salvatore Sciarrino – uno dei massimi compositori contemporanei – per quartetto di sassofoni. Qual è il risultato di questo incontro tra passato e presente?
Le Pagine di Sciarrino sono delle elaborazioni di brani del passato concepite per quartetto di saxofoni, una formazione che il compositore stesso definisce in questo modo: «incredibilmente omogenea fra tutte e duttile, nata oltre cent’anni fa, tuttavia di rado impiegata al di fuori del jazz e dunque ancora da esplorare». L'antologia di Sciarrino, nel riunire sapientemente composizioni di epoche lontane scritte da compositori di diversa estrazione (da Gesualdo da Venosa, passando per Bach e Mozart, fino ad arrivare a Gershwin e Porter, tra gli altri), va nella direzione di ampliare ulteriormente il repertorio da concerto per quartetto di sax. Attraverso l’arte della trascrizione e con una scrittura scevra da stereotipi, Sciarrino restituisce, rendendoli attuali, dei capolavori del passato alla contemporaneità, creando delle connessioni tra linguaggi e scritture apparentemente lontani. Per questo motivo, il passaggio tra le pagine musicali di Sciarrino e gli altri brani originali, scritti da compositori contemporanei, che proponiamo in concerto, risulta particolarmente fluido: sembra tutta musica di oggi, per il nostro strumento dalla voce così malleabile.

E come cambia il vostro stato d’animo nell’approcciarvi a repertori facenti capo a differenti stili ed epoche storiche?
La scelta di non concentrarci solo su un periodo storico o un genere specifico ci permette di dare spazio alla nostra curiosità e alla nostra voglia di sperimentare con il saxofono, uno degli strumenti a fiato più versatili. Affrontiamo sempre con grande entusiasmo lo studio di nuovi brani, purché siano in linea con il nostro progetto artistico, che predilige la scelta di musiche scritte da compositori viventi e interessati a esplorare contaminazioni tra linguaggi e influenze musicali di diverso tipo. Nel nostro ultimo disco "Crossfades", prodotto dall'etichetta Da Vinci Publishing, la nostra proposta artistica è molto chiara: sono infatti presenti brani nei quali confluiscono sonorità e linguaggi differenti che si fondono in un unico discorso, andando oltre le barriere di genere. Un magico caleidoscopio di frequenze del nostro tempo.

Come è nata la collaborazione con Michael Nyman?
Nyman ci contattò nel 2012, dopo essere stato piacevolmente colpito da una nostra interpretazione della sua più celebre composizione originale per quartetto di sax: il primo movimento della suite di brani Songs for Tony. Da quel momento, Nyman ci invitò a prendere parte a delle sue tournée in Italia, dedicandoci anche il brano inedito "Galton", presente nel nostro ultimo disco. Ricordiamo con particolare emozione il concerto condiviso con lui nel 2018 nell'ambito della Biennale di Venezia, durante il quale abbiamo suonato delle sue musiche, dirette da lui, nella suggestiva Cavea Arcari (Vicenza).


23.07.2021

Ceresio Estate: Musikreise mit Hesse 

Interview mit dem Solisten Tommaso Maria Maggiolini

von Lucienne Rosset

Am Donnerstag, 29. Juli um 20.30 Uhr, findet in der Sala Boccadoro beim Museum Hermann Hesse in Montagnola ein Konzert zu Ehren des deutschen Dichters statt, der 40 Jahre seines Lebens im Tessin verbracht hat und hier viele seiner bedeutendsten Werke schrieb. Das Programm wird vom TRIO TORRELLO dargeboten, das aus der Sängerin Valentina Londino, dem Flötisten Tommaso Maria Maggiolini und dem Pianisten Nicolas Mottini besteht.

Um 19.00 ist das Publikum ausserdem eingeladen, an einer Führung durch die gegenwärtige Ausstellung «Rilke, Hesse, Dürrenmatt – und der Wein» im Museum teilzunehmen.

Der Flötist des Ensembles beantwortete einige unserer Fragen.

Lieber Tommaso, wie seid ihr auf die Idee gekommen, als klassisches Trio einen Abend dem Dichter Hermann Hesse zu widmen.

«Wir lieben alle drei Hesses Schriften, dadurch ergab sich seit ein paar Jahren eine  Zusammenarbeit mit der Fondazione Hermann Hesse Montagnola und dem Hesse-Museum in Calw. Dabei entwickelten wir das Projekt allmählich».

Nun gibt es zwar zahlreiche Lieder auf Hesse-Texte für Stimme und Klavier, aber die Flöte spielt ja dabei nicht mit...

«Richtig, natürlich stehen die bekannten, sehr berührenden Lieder von Hesses intimen Musikerfreunden Volkmar Andreae, Othmar Schoeck und Fritz Brun im Zentrum, dazu die nicht weniger faszinierenden Lieder des deutschen Komponisten Justus Hermann Wetzel, alle in der ersten Hälfte des letzten Jahrhunderts entstanden. 

Aber wir haben ausserdem bei heute lebenden Autoren Werke für Trio bestellt, so beim italienischen Komponisten Alessandro Lucchetti, der dem Tessiner Publikum von Konzerten mit dem OSI und vom Progetto Martha Argerich bekannt ist, sowie bei der Schweizerin Barbara Rettagliati. Ausserdem hat der Tessiner Komponist Pietro Viviani das von Richard Strauss für Sopran und Orchester geschriebene Lied «September» für unsere Trio-Besetzung bearbeitet.

Zur Auflockerung werde ich mit Nicolas dazwischen das «Albumblatt» und die Sonate op.16 von Othmar Schoeck spielen, die zwar ursprünglich für Violine und Klavier konzipiert sind, sich mit ihrem melodiösen Reichtum aber bestens für die Interpretation auf der Flöte eignen.»

Kannst Du uns noch erzählen, wie es zur Gründung Eures Trios kam?

«Gerne – wir habe alle drei gleichzeitig am Conservatorio della Svizzera Italiana studiert, und aus der Freundschaft und dem gelegentlichen Zusammenspiel von jeweils zweien von uns ergab sich dann bald die Idee, auch Stücke zu dritt zu suchen und zu spielen. Zu unserer Überraschung fanden sich bald etliche Werke von bedeutenden Musikern wie Bach, Händel, Vivaldi, Donizetti, Saint-Saëns, Ravel, Caplet, Frank Martin, und auch viele Stücke, die sich bestens für Bearbeitungen eignen wie die von Gershwin oder Edith Piaf. Mit diesen ist auch unsere erste CD bei VDE Gallo (Lausanne) herausgekommen. Und da unser erstes offizielles Konzert in der Kirche von Torrello bei Carona stattfand, haben wir uns für den Namen Trio Torrello entschieden.»

20.07.2021

Un'identità musicale dinamica

Intervista a Marina Poma-Chiaese

di Alessandra Aitini

Domenica 25 luglio nella Sala Sergio Maspoli di Morcote si esibirà il “Clas-Jas Quartétt”,che già dal nome lascia intendere una commistione tra jazz e musica classica.
Marina Poma-Chiaese (flauti),Gianluca Quadarella(pianoforte), Domenico Ceresa (contrabbasso) e Marco Castiglioni (batteria) hanno infatti voluto rendere omaggio al pianista e compositore francese Claude Bolling, uno dei pionieri della third stream in Europa, scomparso a 90 anni alla fine del 2020. Il programma comprende diverse composizioni di Bolling (tra cui la deliziosa “Suite pour Flûte et Jazz Piano Trio”, scritta per Jean-Pierre Rampal nel 1973) ed è completato da brani di George Gershwin e Scott Joplin. Ci introduce al concerto, raccontandoci un po' di sé, la flautista Marina Poma-Chiaese.

Come si è formato il vostro ensemble e quali sono i suoi obiettivi?

L’ensemble riunisce, oltre alla sottoscritta, tre amici con i quali volevo condividere un momento musicale per festeggiare i miei 40 anni di attività. Ho iniziato a suonare il 7 ottobre del 1978 (momento in cui ho acquistato il mio primo flauto presso un noto venditore a Milano, con il guadagno di un lavoro estivo…). Nel momento esatto in cui ho iniziato a soffiare nello strumento, sapevo che ne avrei fatto il mio mestiere. È stato un momento magico…lo ricordo ancora con emozione. Nel 2018 e proprio nello stesso giorno di 40 anni prima, ho voluto marcare questo momento ed affrontare anche un repertorio diverso da quello da me normalmente praticato. Suonare con Gianluca, un pianista di tradizione classica e con Domenico, contrabbassista e Marco batterista che frequentano regolarmente il jazz, è stato un bel mix e un nuovo modo di lavorare. Era proprio questo che volevo, un nuovo approccio al modo di studiare e di trovarsi a fare prove. Di obiettivi veri e propri non ce ne sono…cerchiamo di proporre questo programma che riteniamo originale e se qualche compositore è solleticato dall’idea di scrivere qualcosa per questa strana formazione, noi ne saremmo felici!

Qual è il significato della musica di Claude Bolling nel repertorio di un flautista?

È molto interessante per un flautista d’impronta classica affrontare questo repertorio che va a braccetto con il jazz. È tutto scritto ma a volte sembra che ci sia improvvisazione. In realtà in qualche passaggio Bolling suggerisce d’improvvisare, di lasciare spazio alla propria creatività e per i “classici” questa diventa un’ardua sfida. Dobbiamo liberarci dagli schemi mentali e tecnici che da sempre studiamo a dosi massicce.

Come si colloca Claude Bolling, nella linea della storia della musica, rispetto a Gershwin e Joplin?

Direi che sono strettamente collegati su una linea temporale e stilistica. Dapprima Joplin che ha assorbito la tradizione della musica afroamericana, considerate le sue origini.  Il suo percorso è strano, talento naturale è stato inquadrato da un professore tedesco che l’ha impostato sulla tradizione classica. Da qui nascono composizioni che si muovono su un terreno prestabilito dalle regole dell’armonia tradizionale e dello stile classico, ma che si dibattono in un ritmo sincopato che viene dalle sue origini. Nascono i famosi Ragtime, musica effervescente di ritmo appunto sincopato. Gershwin, di qualche decennio più giovane e pure americano, ha evidentemente ascoltato e probabilmente pure suonato la musica di Joplin. In un certo senso ha un percorso simile, pianista talentuoso viene pure inquadrato nelle strutture rigide del repertorio classico. In quel periodo storico di “Fin de siècle” però c’è quella grande novità della musica impressionista francese che sta rompendo appunto le strutture armoniche e stilistiche proprie della musica fino ad allora scritta e che varca l’Atlantico seducendo tanti musicisti americani, tra cui Gershwin che l’assorbe e la trasforma in un suo linguaggio tutto personale. E poi il jazz che sempre più si diffonde e che pure non lascia indifferente questo grande compositore. La fusione del linguaggio classico influenzato dalla musica impressionista e quello jazz genererà la celebre Rapsodia in Blue per pianoforte e orchestra, oltre a caratterizzare tutta la sua produzione. E un pianista francese di nome Claude Bolling, come poteva non essere sedotto da brani di questo calibro? Il passo è breve, il percorso seguito è ancora una volta simile a quello dei suoi due predecessori: studi classici molto brillanti e poi via nel genere jazz. Discepolo di Duke Elligton, esplorerà i generi musicali che tanto vanno di moda negli States. Dalla creazione di una Big Band alla composizione di colonne sonore per film. La sua tecnica compositiva è eccelsa e i numerosi amici musicisti di grandissimo calibro che lo attorniano gli permetteranno di scrivere una grande quantità di musica cameristica dove può fondere il suo amore per il jazz e la tradizione classica. Ancora una volta, fortemente a braccetto!
Questo concerto per Ceresio Estate normalmente previsto nel 2020 voleva essere anche un omaggio ai suoi 90 anni. Purtroppo, se n’è andato lo scorso dicembre, ma l’omaggio naturalmente rimane!

Lei è attiva su più fronti, dalla musica antica alla contemporanea. Come si influenzano i vari stili nella sua attività e nella sua identità di musicista?

(…sospiro…) Ci sono voluti molti anni, probabilmente troppi, per rendermi conto che la Musica è una sola. Mi spiego: ogni repertorio e stile può essere approcciato con la stessa serietà e cura di un altro. Non esiste musica di serie A o B. Ho avuto inizialmente un imprintig molto forte e selettivo sulla musica del ‘900. Durante gli studi a Parigi ho iniziato ad ascoltare molti concerti di musica etnica che mi hanno aperto le orecchie (e la mente) su stili completamente fuori dagli schemi che conoscevo. Questo mi ha non poco destabilizzata… Ho poi avuto la possibilità di avvicinarmi alla musica antica semplicemente perché il conservatorio che frequentavo mi permetteva di farlo gratuitamente. Mi è stato imprestato un flauto…e via! Nuovo mondo, nuove diteggiature, nuovo modo di soffiare nel flauto e di affrontare uno spartito. Niente a che vedere con il flauto moderno. Mi sono resa conto della vastità musicale che mi circondava e della ricchezza timbrica inesplorata. All’epoca non c’erano Youtube e Google…le scoperte erano frutto d’investimento di tanto tempo, spostamenti per assistere ad innumerevoli concerti e acquisti di dischi. Ho anche esplorato la musica irlandese con i tipici flauti e da tanto tempo covo il desiderio di studiare lo Shakuhachi, flauto della tradizione giapponese. È un’idea fissa che vorrei realizzare in pensione, tra pochi anni.
Confrontarsi con tanti generi e stili diversi credo che permetta di affrontare brani suonati magari tante volte, con uno spirito e approccio sempre nuovi.
La mia identità di musicista? Direi costantemente in movimento…


05.07.2021

Archi da maestro per un "Hauskonzert"

Intervista al violoncellista Michael Gross

di Alessandra Aitini

Mercoledì 7 luglio alle ore 20.30 Ceresio Estate presenta, presso la Chiesa parrocchiale di Caslano, “Archi da Maestro”, concerto dedicato a capolavori per ensemble di archi di Richard Strauss, Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig Van Beethoven, che vedrà protagonista l’ensemble Parnassus Akademie di Stoccarda. Ci introduce al concerto il violoncellista Michael Groß, fondatore e colonna portante dell’ensemble.

Com’è nato questo ensemble e quali sono i vantaggi di avere un organico "a geometria variabile"?

La Parnassus Akademie è stata fondata da me nel 2006. Prima di questa data, con il Trio Parnassus ho suonato più di 200 diversi trii, tra i quali più di 100 sono stati registrati. La fondazione dell’Akademie è stata dettata da un mio desiderio di conoscere un repertorio che andasse oltre la letteratura per trio con pianoforte.
Con un gruppo misto o flessibile vi sono infinite possibilità di costruire programmi compositi. Ad esempio, due anni fa abbiamo registrato un doppio cd con opere di Bernhard Molique; nel primo CD vi sono opere per trio con pianoforte – dunque qualcosa di molto convenzionale. Nel secondo cd invece, oltre al quartetto con pianoforte, c’è anche un quintetto con un organico speciale: flauto, violino, due viole e violoncello. Questi sono gli organici che rendono interessante la Parnassus Akademie e con cui posso fare il giocoliere. E tutto ciò è fantastico!

I vostri programmi sono caratterizzati dall’accostamento di brani di repertorio e rarità. Con che criteri vengono allestiti ?

In linea di principio tutto funziona attraverso la ricerca. La maggior parte delle rarità che ho scoperto le ho trovate leggendo biografie o ascoltando programmi radiofonici su compositori poco noti. Ricevo inoltre suggerimenti da cui mi lascio guidare: ho ottimi contatti con musicologi che mi fanno sempre proposte interessanti. Per esempio, due anni fa ci ha contattati la Società “Christian Heinrich Rinck” con la richiesta di registrare i trii con pianoforte. Rinck, compositore nato nel 1770, come Beethoven, è stato per noi una grossa scoperta, così oltre al 250° anniversario di Beethoven ne abbiamo potuto celebrare un altro, andato altrimenti nel dimenticatoio. Il lavoro di ricerca mi riempie di gioia e mi stimola ogni giorno: ci sono tante cose belle e sconosciute ancora nascoste nelle biblioteche.

La Sinfonia “Pastorale” di Beethoven: qual è il significato, nel 2021, di eseguirla nell'arrangiamento per sestetto d'archi di Michael Gotthard Fischer ?

All'epoca di Beethoven, suonare i lavori sinfonici del momento con organici di musica da camera era una cosa assolutamente normale. Tutte le sinfonie di Beethoven esistono in versioni per le più varie formazioni. Lo stesso Ludwig a ha trascritto la sua seconda sinfonia per trio con pianoforte. La ragione è semplice: era la maniera più comune per far conoscere e apprezzare questi lavori in una cerchia intima, casalinga, ad esempio durante una soirée. Anche molte composizioni per ensemble di fiati hanno avuto origine in questo periodo. In tempi più recenti, a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, Arnold Schönberg ha fondato un circolo per esecuzioni musicali private, al fine di eseguire grossi lavori orchestrali con organici cameristici. Lo scopo era di rendere possibile ad artisti e amatori dell’arte una vera e precisa conoscenza della musica moderna. Era un tempo lontano dalle nostre possibilità odierne, fatte di cd, mp3 e streaming; oggi purtroppo gli Hauskonzerte non hanno più una grande importanza. Eseguire la Sinfonia Pastorale in sestetto nel 2021 è dunque un modo di ricordare quelle benemerite iniziative.

24.06.2021

La tranquillità del suonare

Intervista a Valerio Lisci

di Alessandra Aitini

Sabato 3 luglio alle 19.00, nella Chiesa parrocchiale del magico borgo di Gandria, gioiello architettonico-paesaggistico affacciato sulle acque del Lago di Lugano, si esibirà per Ceresio Estate Valerio Lisci , giovane arpista italiano tra i più talentuosi della sua generazione. Proporrà un programma dal titolo “Maschere italiane”, con brani di Respighi, Rossini, Nino Rota, Caramiello, Mchedelov, Parish Alvars, Posse, nonché una propria composizione: “La Maschera”. È lo stesso Valerio ad introdurci al concerto, parlandoci a 360° del rapporto con il proprio strumento.

L’arpa è uno strumento che l’esecutore abbraccia. Richiede l’utilizzo e la coordinazione di mani e piedi per la produzione dei suoni. Come vivi questa “fisicità” nel rapporto con il tuo strumento?

È proprio così: suonare l’arpa esige molta coordinazione e coinvolge in un unico momento tutto il corpo. Questa è una caratteristica del mio strumento che ho sempre amato. Tutto ciò richiede una postura comoda ed una tranquillità quasi meditativa, così che un arpista possa a controllare ogni movimento “senza controllarlo”. I movimenti devono essere automatizzati e a tal fine è indispensabile una grande tranquillità fisica. Quando studio cerco di far sì che i brani “escano” da me in una situazione di totale agio e pace, così che quando poi mi trovo ad eseguire gli stessi brani davanti al pubblico questa serenità corporea veicoli la naturale tensione da performance in energia positiva. Trovo che la sfida con l’arpa sia questa e che solo il raggiungimento di tale tranquillità consenta di gestire contemporaneamente movimenti multipli e complessi.

“Maschere italiane”: un programma che ammicca, oltre che alla tradizione italiana, al travestimento, alla metamorfosi. Quali sono le metamorfosi dell’arpa nell’attraversare questo itinerario musicale che ci porta da Napoli a Venezia, passando per le sonorità di Nino Rota e il virtuosismo paganiniano?

In questo programma l’arpa si trasforma innanzitutto attraverso le diverse epoche storiche che abbraccia e attraversa. Si inizia con una Sonata di Scarlatti, che l’arpa prende in prestito dal repertorio clavicembalistico. In generale l’arpa è un po’ carente quanto a letteratura originale, dunque andiamo spesso a ripescare e “trasformare” brani composti in origine per altri strumenti. Nel programma troviamo tuttavia anche brani molto più arpistici, come il Carnevale di Venezia di Wilhelm Posse, il quale è stato un grandissimo compositore per il mio strumento: nelle sue composizioni l’arpa risplende, può dare il meglio di sé. La stessa cosa si può dire per il brano di Paganini, arrangiato da Mikhail Mchedelov in questa prospettiva di valorizzazione dell’arpa. C’è poi Nino Rota, che ad un certo punto della sua vita si è profondamente innamorato dell’arpa ed ha scritto, oltre al Concerto per arpa e orchestra, questa bellissima Sarabanda e toccata. Questo percorso ci porta quindi, partendo da un brano che l’arpa prende in prestito dall’epoca barocca, fino ad una dimensione neoclassica con Rota, che riserva una grande attenzione al timbro, quindi ad una sfera romantica in cui l’arpa sprigiona tutte le sue potenzialità ed infine ad una dimensione più personale attraverso il mio brano, che ricerca sonorità particolari.

La scrittura per arpa è forse una delle sfide più difficili per un compositore. Cosa ti ha indotto a scrivere per il tuo strumento e quali sono i tuoi progetti nell’ambito della composizione per arpa?

Penso che, proprio per l’enorme difficoltà che la scrittura per arpa implica, nel corso della storia molti compositori che hanno scritto cose bellissime per pianoforte o altri strumenti abbiano scritto poco o nulla per il mio strumento. Probabilmente si sono trovati intrappolati nell’apparente non logicità dell’arpa. È molto più immediato capire il funzionamento di un pianoforte. Questo ha fatto sì che ci ritroviamo un repertorio piuttosto contenuto ed il mio sogno è proprio quello di allargarlo. Cerco quindi di dare il mio piccolo contributo attraverso nuove composizioni o trascrizioni mirate. Ad esempio, sto finendo di adattare, per violino e arpa, la Sonata di Debussy e la Tzigane di Ravel, originali per violino e pianoforte. Come nuovi progetti ho in cantiere invece una Fantasia su temi di Puccini.

Nella tua biografia spiccano le numerose vittorie di premi in importanti concorsi internazionali. Cosa hanno rappresentato questi concorsi nel tuo percorso di formazione e crescita?

Ho iniziato a fare concorsi fin da piccolo: per me hanno sempre rappresentato un obiettivo per mantenere un ritmo di studio molto serrato ed intenso. Quando finivo con un concorso guardavo subito al successivo proprio per avere una motivazione molto forte, sapendo che entro una determinata data avrei dovuto essere pronto ad eseguire un determinato programma. Inoltre ho sempre trovato molto interessante, dopo i concorsi - anche quelli non vinti, ascoltare ciò che la giuria pensava della mia performance. I concorsi internazionali rappresentano quindi a mio avviso una bellissima opportunità per incontrare contemporaneamente grandi virtuosi dello strumento o più in generali grandi musicisti, davanti ai quali è richiesto di suonare al massimo delle proprie possibilità e da cui si possono ricevere consigli preziosi.


19.06.2021

Omaggio "celestiale"
a Luciano Sgrizzi

Intervista a Davide Macaluso

di Alessandra Aitini

Lunedì 21 giugno la Chiesa parrocchiale di Carabbia, ospiterà, alle ore 20.30, il secondo appuntamento di Ceresio Estate, dedicato alla celesta, strumento a tastiera il cui suono cristallino viene normalmente relegato a luccicante ciliegina sulla torta orchestrale, ma che in questo caso vestirà i panni del protagonista. Ci introduce al concerto Davide Macaluso, che accompagnato dal Quartetto Indaco ci trasporterà in un universo di suoni suggestivi e sorprendenti. 

Come ti sei avvicinato alla celesta ed alla figura di Luciano Sgrizzi?

È accaduto un po’ per caso. Qualche anno fa, in seguito ad una mia performance di musica contemporanea al Conservatorio della Svizzera italiana, sono stato avvicinato da Lucienne Rosset, la quale dopo aver letto al mio curriculum mi ha coinvolto in un progetto a detta sua “strano”, per cui mi trovava particolarmente adatto. Questo progetto nasceva attorno alla figura di Luciano Sgrizzi - pianista e clavicembalista attivo a partire dal 1947 presso la RSI - ed in particolare alla volontà di eseguire nuovamente il brano “La Pendule Harmonieuse” di Pick-Mangiagalli, forse l’unico brano originale per celesta solista, registrato dallo stesso Sgrizzi proprio per la RSI. Io sono sempre stato molto curioso nell’avvicinarmi alla musica, dunque mi sono subito lanciato in questa avventura, che mi ha portato nuovi stimoli. Nel 2019 abbiamo realizzato un primo concerto, incentrato sul brano di Pick-Mangiagalli; in previsione del concerto per Ceresio Estate abbiamo elaborato un evento-omaggio più approfondito, con la composizione di un brano dedicato a Sgrizzi che verrà eseguito in prima assoluta. 

Come è possibile “trasformare” la celesta in strumento solistico? 

Credo che il segreto stia nello sganciarsi dall’idea comune della celesta come strumento orchestrale e coloristico. Mi sono chiesto: cosa posso creare con questo suono? E il risultato è stato sorprendente. In orchestra la celesta spicca generalmente con sonorità acute e pungenti. Utilizzando invece la celesta anche nel registro grave si scopre un suono soffice e pieno, a tutti gli effetti solistico, che avvolge e si lascia avvolgere dal timbro degli archi. 

Come è nata la collaborazione con il Quartetto Indaco?

Un po’ per caso. Stavo cercando un quartetto d’archi e mi è stato consigliato, sia a livello musicale che umano, di rivolgermi a loro, che conoscevo naturalmente di fama. Alla mia proposta di collaborazione ho ricevuto immediatamente una risposta positiva. Il Quartetto Indaco è un quartetto aperto alla musica nuova, curioso, un po’ come me. Ritengo sia essenziale fare le cose con l’entusiasmo dei bambini: se così non fosse probabilmente non sarei mai arrivato né alla celesta né a questo progetto. 

Torniamo a Luciano Sgrizzi: cosa ti ha colpito di più della sua figura?

Prima di intraprendere questo progetto non conoscevo Luciano Sgrizzi ed in seguito me ne sono vergognato. È stata una personalità musicale molto interessante ed ha una discografia importante, specialmente dal punto di vista cembalistico. Più di tutto mi ha colpito il suo eclettismo: basti pensare che è stato “scoperto” mentre faceva il pianista di pianobar ed in seguito, mentre lavorava per la RSI, è stato uno dei primi a recuperare la musica di Monteverdi nella sua purezza. La figura di Luciano Sgrizzi è diventata per me un punto di riferimento, mi sento molto affine a lui.  


18.06.2021

Davide Macaluso stellt die Celesta vor

Interview mit dem Solisten Davide Macaluso

von Lucienne Rosset

Im zweiten Konzert von Ceresio Estate 2021, in der Kirche von Carabbia am Montag 21. Juni um 20.30, stellt der italienische Pianist, Organist und Komponist und – in diesem besonderen Fall – Celestaspieler Davide Macaluso, übrigens Absolvent des Conservatorio della Svizzera Italiana, ein besonderes Instrument vor: die Celesta. Er wird vom Quartetto Indaco aus Mailand begleitet, zur Zeit eines der spannendsten jungen Streichquartette in Europa.

Lieber Davide, wie kam es zur Idee, dieses so gut wie unbekannte Instrument zu präsentieren, das einem Klavier sehr ähnlich sieht, aber ganz wie  Engelsglöcklein klingt – und das in einem Kammerkonzert? Üblicherweise kommt es ja nur nur in Werken für grosses Orchester vor und ist dann weit hinten zwischen dem  Schlagzeug «versteckt»...

Tatsächlich gibt es kaum Kompositionen in kleiner Besetzung für Celesta. Eine davon ist «La Pendule harmonieuse» für Celesta und Streicherensemble von Riccardo Pick-Mangiagalli, dem Direktor des Mailänder Konservatoriums ab 1936. Es wurde von Luciano Sgrizzi, einer der bedeutendsten Persönlichkeiten im Tessiner Musik- und Kulturleben des letzten Jahrhunderts, öfters interpretiert und im Radio Svizzera Italiana eingespielt. Diese Aufnahme hat den Locarneser Konzertorganisatoren Riccardo Tiraboschi inspiriert, das Stück als Motto für sein jährliches Klavierfestival zu nehmen, und 2019 haben wir es, nebst einem Teil des diesjährigen Programms, im Elisarion aufgeführt.

Also gibt es dieses Jahr noch weitere Werke zu hören?

Richtig, denn wir haben das Programm nun als eine eigentliche Hommage an Sgrizzi konzipiert. Letztes Jahr hatte ich ja einige berühmte Themen, die man mit diesem Instrument kennt – etwa Mozarts Papageno-Arie, Tschaikowskys «Zuckerfee» oder Leoncavallos Notturno - für Celesta und  Streicher arrangiert bzw. variiert, und ausserdem Solowerke von Friedrich Gulda und mir gespielt. Auch vom Organisten Jean Guillou, einem meiner wichtigsten Mentoren, war ein Nocturne dabei. Für Ceresio Estate habe ich nun zusätzlich den «Quintettsatz in memoriam Luciano Sgrizzi» komponiert, der am kommenden Montag uraufgeführt wird. 

Wird das Quartetto Indaco auch solo auftreten?

Ja natürlich: es wird Ravels wunderbares Streichquartett interpretieren, das im Repertoire des Quartetts einen ganz besonderen Platz einnimmt und übrigens zu Sgrizzis Lieblingswerken gehörte.